venerdì 28 dicembre 2007

I LECCESI A CIVITA CASTELLANA

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I LECCESI A CIVITA CASTELLANA

Storia di una minoranza

di Alfredo Romano


Qualcuno si chiederà come mai molti leccesi abbiano scelto come luogo d'emigrazione Civita Castellana e non le tradizionali città del Nord. Non si tratta, innanzitutto, di una scelta, ma del risultato di una congiuntura economica nel mercato delle braccia.

La coltivazione del tabacco

Ci fu a Civita Castellana, dal dopoguerra in poi, una forte richiesta di manodopera specializzata nella coltivazione del tabacco. Il risveglio dell'economia ceramica aveva provocato una carenza di salariati e brac­cianti. I proprietari terrieri erano per ciò costretti a ripiegare su colture estensive, per lo più seminativi e pascoli che, se da una parte non ri­chiedevano un grosso impiego di manodopera, dall'altra finivano con l'essere delle rendite parassitarie.
Il tabacco fu l'idea geniale di qualche proprietario, ma non proprio un fatto spontaneo o casuale. In realtà lo Stato, che allora deteneva il completo monopolio del tabacco, dalla pianta al prodotto finito, ne vol­le incentivare la coltivazione con una politica dei prezzi a vantaggio del tabacco prodotto nel Viterbese. Un vero e proprio premio quindi. Ed è qui che grandi e piccoli proprietari terrieri di Civita Castellana si rivolsero ai salentini, (Salento è la penisola che comprende le province di Lec­ce, Brindisi e il Basso Tarantino, differente dalla Puglia politica vera e propria per storia, lingua e costumi) che, per essere dei levantini, da an­ni e anni sono dediti alla coltivazione di qualità di tabacco slave, come l'Erzegovina e il Perustitza, e greche, come lo Xanti Jaca.


Caccia alla monodopera salentina

Fu così che dei caporali, anche salentini, vennero sguinzagliati nella provincia di Lecce alla caccia di manodopera. Ancora nei primi anni sessanta i caporali ricevevano un premio di 50 mila lire per ogni famiglia che riuscivano a condurre a Civita Castellana. Alle famiglie s'illustrava Civita come l'Eldorado e la cosa non era priva di interesse ovviamente.
Una ragione, in ogni modo, per emigrare a Civita c'era: Civita è ricca d'ac­qua (il Salento è arido, si sa) e quindi assicurava la produzione di una quantità di tabacco voluta. In secondo luogo, lo abbiamo già detto, lo Stato pagava meglio: ciò malgrado il tabacco del sud fosse di qualità migliore, perché, si sa, più esposto al sole.


L'immigrazione a Civita Castellana

Intere famiglie vennero così ad occupare le case coloniche sparse nei dintorni di Civita. Nella tenuta De Fenu, in località Terrano, si rea­lizzò la massima concentrazione d'immigrati con circa 45 famiglie. Ho detto case coloniche: in realtà erano alloggi malsani e squallidi, privi di servizi igienici, spesso ricavati da stalle. Col proprietario si instaurò un rapporto feudale, da servi della gleba. Il contratto (stagionale, rinnova­bile di anno in anno) obbligava tutti i componenti la famiglia a dedicarsi esclusivamente al lavoro del tabacco. Usufruire di un salario esterno poteva decretare l'annullamento del contratto stesso. Un rapporto che costrin­geva le famiglie a contrarre debiti per poter sopravvivere, sicché restava ben poco del ricavato dall'annata. Normale era l'impiego dei bambini nelle varie fasi di lavoro, costretti a una levataccia a 16 ore di lavoro al giorno come gli adulti. Erano sempre due braccia in più.
Così a Civita veniva a mettere piede una minoranza, i Leccesi appun­to, con tutti i problemi economici e sociali che il fenomeno comportava. La maggior parte di loro erano stagionali e tornavano nel sud a fine rac­colto; altri fissarono invece la residenza a Civita.


Il miraggio della ceramica e le difficoltà di integrazione

Per quest'ultimi si presentava un altro miraggio: il tabacco come par­cheggio, poi il salto nella fabbrica di ceramica. Ciò avrebbe risolto il problema non solo economico, ma soprattutto di integrazione nel tessu­to sociale di Civita. In realtà, l'essere sparsi nelle campagne, quindi con scarsi contatti tra di loro, impedì il ricostituirsi di un gruppo etnico con una sua identità culturale e il 'ritrovarsi' è stato sempre un fenomeno sporadico e individuale. Ciò comportò anche l'assenza di una forza con­trattuale non solo nei confronti dei padroni e dei loro contratti capestro, ma anche delle istituzioni come il Comune, i Partiti e i Sindacati, per i quali la presenza dei Leccesi venne considerata più un fenomeno di di­sturbo. I Leccesi non erano salariati puri, ma compartecipanti di un'a­zienda agricola, quindi una forza lavoro spuria e, a differenza della classe operaia, scomoda e difficile da organizzare. Tra l'altro il procurare grossi profitti ai proprietari terrieri, nella mentalità comune non era un tornaconto per l'intera comunità civitonica; era facile così associare in un 'odio di classe' sfruttati e sfruttatori.


Le discriminazioni

E arrivò pure il razzismo. Molti leccesi, mettendo piede a Civita, sco­prirono amaramente di essere 'leccesi', termine che ha assunto impropriamente un significato spregiativo e di insulto. Questo spiega il biso­gno di integrazione, ottenuta poi al prezzo di un'identità perduta, finen­do col non essere più leccesi, ma neanche civitonici. In qualche oste­ria o nel chiuso delle stanze, in ogni modo, molti conservano ancora lin­gua, usi e costumi, per il bisogno anche questo, di definirsi, di essere, e­sistere quindi.
Furono gli anni sessanta il periodo del maggior flusso migratorio. Ai leccesi vennero ad accodarsi anche i calabresi, i quali, benché ignorassero la coltivazione del tabacco, furono costretti a impararne l'arte. Un'arte, si sa, non fa­cile: si nasce a far tabacco, ci vogliono anni. Per i calabresi i primi tem­pi furono ancora più duri, e anche loro divennero 'leccesi', quanto a dire terroni. Come ogni minoranza che si rispetti anche i leccesi tro­varono impiego nel settore edile, nelle attività estrattive, in fabbrica co­me manovali, divenendo indispensabili in una realtà industriale come Civita Castellana, dove restavano scoperti i lavori cosiddetti più umili.


Alcuni dati statistici

Riferendoci a una statistica elaborata dalla Biblioteca Comunale di Civita Castellana nel 1975, troviamo un quadro interessante del flusso migratorio,
un flusso che finisce, tra l'altro, proprio in quegli anni. I dati si riferisco­no alle sole persone residenti. Per gli stagionali, pur in gran numero, non si sonopotuti trovare dati attendibili.
Immigrati meridionali: 994. Figli di immigrati nati a Civita 642. Salen­tini 66,6%, Calabresi 19,4%, Siciliani 7,8%, Lucani: 2,7%, altri 3,5%.
Addetti all'agricoltura 19,4%, edilizia 18,1%, ceramica 5%, cave 2,6%, commercio 2,3%, impiegati 1,6%, casalinghe 25,5%, pensionati 7,5%, studenti 5,3%, bambini 0-13 anni 4,5%, altri 8,7%.
Residenti in campagna: 40%, in città 60%.
Matrimoni misti 144, di cui immigrato-civitonica 71, immigrata-civi­tonico 73.

La nuova legge sui contratti agrari

Nel 1975 il tabacco finisce di essere monopolio di Stato, lo è solo nel prodotto finito. L'introduzione del mercato libero danneggia il tabacco di scarsa qualità prodotto a Civita e premia giustamente quello prodotto nel Salento. Qui, nel frattempo, lo sfruttamento di risorse idriche sotter­ranee con la creazione di pozzi artesiani, ha assicurato l'acqua in molte zone coi benefici che ne derivano. Ora non solo tanti leccesi sono tor­nati nel sud, ma gli stessi Salentini hanno riscoperto l'antica 'vocazione' del tabacco che, per i motivi su accennati, trovano ora più conveniente da coltivare. I proprietari terrieri di Civita hanno reagito tentando d'in­trodurre qualità di tabacco americane come il Burley e il Maryland, che si adattano meglio a zone umide come Civita. La cosa non ha avuto suc­cesso proprio per la mancanza di manodopera specializzata. È caduto, tra l'altro, il vecchio rapporto di lavoro basato sulla compartecipazione, il tabacco ora si può piantare solo in forma di conduzione diretta con l'impiego di salariati, oppure cedendo la terra in affitto. La legge sui pat­ti agrari ha decretato definitivamente la scomparsa della colonìa in tutte le sue forme e varianti. Non trovando più convenienza, i proprietari ter­rieri sono tornati ai seminativi e pascoli. Fatta qualche eccezione, non si coltiva più tabacco.


I leccesi nella nuova Civita

I leccesi, in ogni modo, sono rimasti e col tempo si stanno integrando ormai nel tessuto economico e sociale di Civita Castellana. Il razzismo non è del tutto scomparso, ma è solo appannaggio di gente che non sa spiegarsi la storia delle cose o non sa guardare al di là del proprio naso. Se a dei leccesi vengono assegnate delle case popolari, ci sono ancora Civitonici che si sentono defraudati. Non sanno che un uomo, qualun­que uomo, non abbandona il proprio paese per una casa popolare: ci vuole ben altro! Niente può risarcire l'essere stati strappati alle proprie radici. Ai leccesi non... piace viaggiare!
La storia dei leccesi è ormai storia di Civita Castellana, quindi storia del progresso di questa città al cui benessere essi hanno notevolmente contribuito.

E i 'leccesi' si chiameranno leccesi, dal suono di una terra solare, barocca, greca, dove la vite e l'ulivo hanno ancora il sapore del mito. Senza retorica.

Alfredo Romano

Da L'Informatore Civitonico, n. 13, dic. 1983.




Civita Castellana, 1968. Tenuta Terrano.
La famiglia Romano ritratta all’alba durante
la raccolta del tabacco. In piedi: la madre
Lucia Giustizieri, il padre Giovanni e i figli
Angelo e Aldo. Accovacciati: gli altri figli
Alfredo ed Eugenio.






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DISCORSO TENUTO ALLA CONFERENZA SULL’IMMIGRAZIONE ALL’ISTITUTO TECNICO COMMERCIALE DI CIVITA CASTELLANA


Giovedì 17 febbraio 1994

Mi chiamo Alfredo Romano. Sono stato invitato a raccontarvi un po’ la storia di un'immigrazione a Civita Castellana che è relativamente recente: risale agli anni '50 e '60. Si tratta dei leccesi, nome che qui ha perso il suo significato originario di “abitanti della città di Lecce”. Leccesi si chiamarono tutti coloro che giunsero dal Sud: fossero della provincia di Lecce, di Brindisi o delle province calabresi. Leccesi quindi per indicare i meridionali in genere fra i quali era più forte la comunità salentina. Si chiama Salento la sub-regione a sud della Puglia, la penisola salentina, che comprende le province di Brindisi, Lecce e il basso tarantino.
Sicuramente i primi salentini che giunsero a Civita, alla domanda che veniva loro rivolta da dove venissero, rispondevano da Lecce, un modo per semplificare, perché la parola Salento è sconosciuta ai più. D’altra parte anche noi leccesi, quando torniamo giù al paese, sempre per semplificare e non dare tante spiegazioni, diciamo che stiamo a Roma. Per questo al mio paese ci chiamano i “romani”, definizione che ci rende in qualche modo anche lì dei forestieri ormai.
A Civita Castellana, prima dei leccesi, sono arrivati i marchigiani, gli abruzzesi, i veneti. Contemporaneamente ai leccesi, anche un folto gruppo di calabresi e di sardi, quest’ultimi dediti alla pastorizia.
Bisogna riconoscere che questo di Civita è un fenomeno singolare rispetto a tutti gli altri comuni della provincia di Viterbo. Mentre Civita ha conosciuto il fenomeno dell’immigrazione da altri paesi, i comuni confinanti invece si sono spopolati verso Roma dove era più facile trovare lavoro, soprattutto impiegatizio.
Ciò si spiega col fatto che Civita Castellana, a cominciare dal '700 , con le manifatture ceramiche prima e le industrie poi, non poteva che attrarre manodopera da altri paesi. Ogni realtà industriale conosce questo fenomeno, perché la manodopera, insegnano gli economisti, è uno dei primi fattori della produzione.
Nel dopoguerra, qui a Civita Castellana, accanto alla ripresa degli impianti e della produzione ceramica, si verificava il naturale abbandono delle campagne. O almeno, in mancanza di manodopera locale, attratta più dal miraggio della febbrica, le terre si riducevano a coltivazioni estensive, come seminativi e pascoli, che si sa essere meno impegnative e quindi poco redditizie rispetto a quelle estensive come frutta e ortaggi.
È in questo periodo che i proprietari terrieri di Civita Castellana prendono ad accarezzare l’idea della coltivazione del tabacco. Questa produzione, soggetta a quei tempi al monopolio di stato, avrebbe assicurato loro maggiori profitti, che non i seminativi.
A chi rivolgersi allora? Coltivare tabacco non è cosa semplice: è un mestiere che s’apprende con anni di esperienza. È un lavoro duro, d’estate ti occupa dall’alba al tramonto.
Ebbene, vi era una manodopera specializzata cui rivolgersi, stava nel Salento. La coltivazione del tabacco qui ha radici antiche, antiche relativamente: il tabacco, come altre piante, ci viene dalle Americhe.
Il tabacco nel Salento è di casa, non c’è famiglia che non abbia avuto a che fare. D’estate, per le campagne, ma anche per le strade di paese, non si vedono che distese di telai di tabacco messi al sole ad essiccare. A dire il vero questa mania di coltivare tabacco ci viene dal vicino Oriente, dalla ex Iugoslavia, dalla Grecia. Guarda caso le qualità di tabacco che si coltivano si chiamano erzegovìna, perustitza, xanti jaca.
I proprietari terrieri di Civita Castellana avevano un bell’interesse a produrre tabacco. I contratti, detti di compartecipazione, che si stipulavano coi coltivatori, li favorivano nettamente. A loro andava la metà del prodotto, in cambio ti alloggiavano in una casa colonica (il più delle volte una catapecchia), ti davano cinque quintali di grano per ettaro coltivato e la terra veniva arata a loro spese. Comodo no? Standosene in poltrona, i proprietari avevano in pratica dei quasi schiavi che lavoravano per loro. Il reclutamento avveniva con dei caporali sguinzagliati nel Salento. Questi, per ogni famiglia che riuscivano a trascinare a Civita, si beccavano un premio di 50.000 lire (allora un bel gruzzolo). Il contratto prevedeva l’impegno di tutta la famiglia. Il lavoro minorile era considerato normale; anzi era indispensabile.
Ma nel 1975, con i nuovi patti agrari e l’abolizione della mezzadria e della colonìa, cambiò musica: i proprietari, per coltivare tabacco, avrebbero potuto assumere e pagare giornalmente dei salariati. Non era più conveniente. A Civita finì la produzione di tabacco e di conseguenza si fermò anche l’immigrazione dei salentini.
Furono comunque i sessanta gli anni della grande emigrazione e non solo a Civita: milioni di meridionali partivano per le città del nord Europa e del nord Italia. Qui c’era bisogno di manodopera a basso costo per presse e catene di montaggio, cantieri, miniere e quant’altri . Grazie ai meridionali si ebbe in Italia quel miracolo economico che portò l'Italia a divenire una potenza industriale.
Altrettanto avvenne a Civita. Per molti leccesi coltivarvi tabacco era già aver trovato un lavoro: c’era una resa e un guadagno non possibili nel Salento dalle scarse piogge e privo di corsi d’acqua.
Furono anni duri. Non starò qui a spiegarvi le fasi della lavorazione, fasi che richiedevano cure scrupolose, abilità ed esperienza non indifferenti oltre che una gran fatica. A queste condizioni i giovani della famiglia non ne erano attratti, loro sognavano un posto nelle fabbriche di ceramica al pari dei coetanei civitonici: ciò avrebbe garantito loro un salario, ma soprattutto maggior tempo libero per i loro svaghi e per fare amicizie. Così la regola che li teneva legati all’azienda pian piano cominciò ad essere trasgredita con disappunto dei proprietari terrieri. Furono proprio i giovani leccesi a integrarsi per primi nel tessuto economico di Civita Castellana trovando occupazione nelle fabbriche, nelle cave e nei cantieri. Date uno sguardo ai palazzi in costruzione: la maggior parte della manodopera è leccese o calabrese. Laddove lingua e costumi non sono riusciti, è riuscito invece il lavoro, che ha operato il miracolo dell’integrazione accomunando tutti negli stessi interessi.
Abolito per il tabacco il monopolio di stato, aboliti quei contratti, ebbe anche fine il fenomeno dell’immigrazione meridionale a Civita Castellana. Ciò accadde esattamente nel 1975. Molti leccesi, i più anziani soprattutto, se ne tornarono al Sud. Altri, e furono la maggior parte, i giovani, restarono: il lavoro aveva ormai fatto mettere loro solide radici. Tra l’altro c’era un fiorire di matrimoni misti che ancor più favorivano l’integrazione tra le diverse comunità.
Ma pur se i leccesi avessero voluto continuare a coltivare tabacco, farlo a Civita non sarebbe stato più conveniente per loro. Il tabacco era ormai soggetto al libero mercato e quello prodotto nel Sud, di maggior pregio, era più quotato: la migliore qualità si doveva al sole e al clima più secco che allontana le malattie tipiche del tabacco. Anche quello dell’acqua non era più un problema: a questo sopperivano ormai centinaia di pozzi artesiani che si erano scavati nel frattempo nel Salento. L’acqua assicurava non solo la produzione di tabacco, ma anche quella di ortaggi, frutta, fiori e quant’altri, tanto da attribuire alla Puglia la denominazione di California d’Italia. E a ragione, perché la produzione di verdura da noi si realizza soprattutto d’inverno per via di un clima mite e senza bisogno di serre. Altrove ne è impedita dalle gelate.
Non manca domenica che, telefonando a mia madre, non mi senta dire:
«Affretu, quantu vulìa cu stai cquai, ca li cristiani me ndùcianu tante cicore e ffenucchi e rrape ca nu’ ssacciu a cci l’àggiu ddare. Iu su' ssula e nnu’ mme pozzu mangiare tutta ddha rroba te Diu e ttocca puru cu lla mbarcu. Armenu ci passava querchetunu ca vae a Civita, te putìa mandare ‘nu pocu te fenucchi, ‘nu pocu te cicore e de rape cu tte le cucini cu ‘nna pignata te fae nette. Ca cquai la rroba ne la menamu 'n facce
Traduco. Alfredo, come vorrei che fossi qui, perché c'è tanta gente che mi regala finocchi, cicorie e rape, tanto bendidio che non so a chi dare. Io sono sola e non posso mangiarmi tutta quella roba e così mi tocca pure buttarla. Se almeno ci fosse qualcuno che da qui partisse per Civita, ti potrei mandare un po’ di finocchi, di cicorie e di rape da cucinarti con una pignatta di fave secche sbucciate. Perché qui la roba ce la buttiamo in faccia.

Alfredo Romano



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LECCESI E CASE POPOLARI


"I leccesi ci rubano le case popolari."
"Quelli che vanno a pesca ve le rubano."
"Che c'entrano quelli che vanno a pesca?"
"E i leccesi?"
A una signora di Bologna, preoccupata che i meridionali rubassero il posto di lavoro a quelli del Nord, un giorno rinfacciai: signora, probabilmente lei abita in una bella casa che le hanno costruito i meridionali. È vero, questi meridionali hanno costruito le case di mezza Europa, ma poi a una casa non hanno diritto. Certo, fanno tutti quei figli, per forza che gli debbono dare la casa!
Perché, adesso bisogna fare per forza un figlio solo? Ma come, prima il Signore Iddio benediceva le famiglie numerose e adesso ha cambiato idea? Che facciamo, misuriamo il grado di civiltà dal numero dei figli? Sarebbe come giudicare la pulizia di un popolo dal numero di saponet­te che consuma. Ma la verità è un'altra e la conosciamo: quando si è in tanti a spartirsi uno stesso bene, chi rimane escluso deve pur darsi una ragione e così, a Civita Castellana, sono i leccesi quelli che si portano via le case popolari. Vogliamo allora guardare la statistica? Fino a questo momento ai civitonici è andato il 50% delle case popolari, ai non civi­tonici (leccesi, calabresi, marchigiani ecc.) l'altro restante. Visto che tut­ti pagano le tasse e le case popolari si costruiscono in relazione ai biso­gni di un paese, credo che i civitonici, in proporzione, non hanno proprio di che lamentarsi.
I leccesi, semmai, un torto ce l'hanno, ed è che con tutto quel tabac­co che hanno prodotto hanno rovinato i polmoni a tanta gente. Non potevano almeno coltivare angurie? Perdoniamoglielo però, visto che in fondo lo hanno coltivato con tanta arte oltre che fatica. Perché, a far tabacco, ve lo dico io, non è cosa semplice: si nasce, ci vogliono anni. Il tabacco per noi è cultura.
Li vogliamo conoscere allora questi leccesi? lo non vi perdonerò mai forse l'avermi dissacrato il magico suono della parola Lecce. lo non vi dirò cosa nasconde questa parola che vibra al vento della Grecia e schiude agli occhi un barocco solare, d'incanto; io non vi dirò il vino ad allietarvi il demone delle notti tristi, il profumo che aleggia sui nostri or­ti, i sapori delle nostre tavole imbandite; io non vi dirò il mare cristallino a mitigare le nostre estati... io non vi dirò.
Eppure avete perduto la grande occasione di dire a un leccese: favorite. Lui gli arcani misteri della vita vi avrebbe svelato, l'amicizia, l'ospitalità sacra; le canzoni più belle avrebbe cantato per voi, storie d'amore, di sangue, fatiche millena­rie; davanti a un camino l'ultima fiamma avrebbe spartito, un bicchiere, l'ultimo tozzo di pane, l'anima. lo non vi dirò...

Alfredo Romano

Da L'Informatore Civitonico, n. 10 apr. 1983


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