domenica 9 dicembre 2007

LE LANGHE, IL NUTO: VIAGGIO INTORNO A CESARE PAVESE







Dedica del Nuto all'interno della mia copia della "Luna e i falò" di Cesare Pavese,
edita da Mondadori nel 1969, 1a edizione




















Il Nuto (Pinolo Scaglione)
Firenze, Vallecchi, 1991
Cesare Pavese


Il racconto di viaggio:
ALFREDO ROMANO
Le langhe, il Nuto. Viaggio intorno a Cesare Pavese.
Si tratta di un viaggio compiuto nel maggio 1976 alla ricerca dei luoghi e dei personaggi pavesiani, soprattutto di Pinolo Scaglione, il Nuto del romanzo La luna e i falò. Da quel viaggio tornai con tanti appunti. Ne venne fuori una specie di reportage conservato nel cassetto per tanti anni. Il Nuto è morto l’anno scorso (1990, ndr.) all’età di novant’anni. Il mio vuole essere un omaggio al Nuto, ma anche una testimonianza sull’uomo Pavese visto non dai soliti critici, ma dall’amico più caro che letterato non era.
[Dalla lettera trasmessa a Marcello Rossi, direttore del periodico Il Ponte, che accompagnava il manoscritto. Era la primavera del 1991].
Alfredo Romano



Non l’avevo mai viste queste colline, eppure affacciato dal finestrino del treno prossimo a Canelli, non posso fare a meno di osservarle con gli occhi di Pavese. È come se anch’io vi avessi trascorso l’infanzia. E cosi mi appaiono familiari le loro forme di poppe e i vigneti sui fianchi, a ricordarmi grappoli rossi che fan venir le voglie e… non solo di vini corposi. E poi questo verde fitto a giugno, quando, nel mio lontano Sud, i campi sono gialli e ardono di stoppie. E l’acqua, tanta, dei continui torrenti e canali, e un fiume (sarà forse il Belbo?) che fluisce lento sotto le rotaie. E cosi mi sono rivisto anch’io, nudo e ragazzo a fare il bagno tra quelle rive e, da grande, disteso sul greto con la pelle al sole, fumando la pipa sull’erba all’ombra dei canneti e, accanto, la carne soda di una donna che non è tua. È, come al solito, di un altro.
Alla stazione Ghione è venuto a prendermi con l’auto del padre. Son passati degli anni, ma è ancora rimasto quel ragazzotto contadino di quand’era soldato, col suo piemontese ostinato che non si capiva un accidente specie quando imprecava per qualche ingiusta consegna. In caserma, sapendolo di Canelli, m’era premuto familiarizzare con lui e quale sorpresa fu per me scoprire che suo padre, che faceva il bottaio, era un amico del Nuto, il protagonista del romanzo La luna e i falò. E quando a Ghione raccontavo di Pavese e del Nuto come personaggi mitici tra le colline di Canelli e di Santo Stefano Belbo, lui m’interrompeva sorpreso: “Ma chi, il Pinolo? Quello che fa le bigonce? Ma sì, sta sulla strada dì Canelli per Santo Stefano e ci passo tutti i giorni”. Quei luoghi, quei personaggi che avevano per me i contorni del mito, erano per lui invece familiari: e io lo invidiavo per questo. Gli promisi così che un giorno sarei andato a trovarlo: avevo bisogno di sfatare quel mito; ma certi miti, lo so, non si sfatano, perché il mito, come insegna Pavese, è un aggancio alla vita.
Ghione è un ragazzo cresciuto nella bottega artigiana del padre che, proprio come il Nuto, da giovane, a tempo libero, era stato un musicante: “Sai, cosa vuoi, sono venuto su dal niente e ora ho messo su un piccolo capitale che mi rende. Da giovane suonavo la tromba ed ero molto bravo, più bravo del Nuto che in fondo, suonava ‘1 clarinetto solo nelle feste e paesane, mentre io davo veri e propri spettacoli. Ho ancora con me le foto e i giornali che parlano di me e della mia tromba”.
Probabilmente Pavese non avrebbe avuto proprio a cuore la presunzione del padre di Ghione, ma ce n’è tanta di gente così a Canelli che la musica ce l’ha nel sangue. E Ghione mi parla di bande e complessi perché qui quasi tutti hanno studiato musica fin da ragazzi e non è detto che certe serate in collina, nelle cascine, sull’aia, tra i vigneti in pendio, non si ripetano più con tanto vino, con tanto fumo, e musica, baccano e ragazze e l’alba che si aspetta sempre su queste colline dopo una notte di festa.

Ci sono tante botti nella bottega di Ghione: nuove alcune, già pronte, il legno ancora fresco stretto da cerchioni di ferro fiammante; altre ancora da finire con le doghe non ancora curvate nella classica forma di pancia. Messe in fila cosi mi riportano ad Alì Babà e i quaranta ladroni. Ghione mi spiega come si costruisce una botte: ci vuole molto pazienza ma più dell’affezione. Tutto il giorno, con l’uso dei cunei, si batte sui cerchioni che stringono le doghe e non è detto che talvolta non ci scappi un dito. Per costringere le doghe alla forma di pancia, si usa porre all’interno della botte un’apposita gabbia di ferro che racchiude un fuoco che deve essere costantemente attivato. È Ghione l’addetto al fuoco e così alla sera vien fuori che sembra uno spazzacamino.
“Ti piace, Ghione, questo lavoro?”.
“Diciamo che mi piace, forse altri non ne ho trovati. Certo lo faccio fin da ragazzo e mio padre, in fondo, non è poi tanto severo: si è più liberi e non è come stare dietro a un padrone”.
M’incuriosisce Ghione e penso che forse non abbia ancora una ragazza e glielo chiedo. Lui mi risponde che va ancora a ballare con gli amici e che ama il liscio anche se non è proprio il suo forte. La sua gente (e a lui piace molto frequentarla), invece, lo balla seriamente, a tempo, e si fanno pure delle gare, con personaggi curiosi, strani e di una simpatia unica. Uno di questi per esempio è uno spazzino, un tipo magro, sulla quarantina, pelato, senza denti, ma dicono si faccia le più belle ragazze del paese. Per questo è molto invidiato, ma tutti ammettono che nessuno sa fare bene il caschet come lui. Il padre dello spazzino, poi, era un vero artista, sapeva costruirti di tutto: dagli orologi, agli strumenti musicali. Bravo sì, ma s’accontentava di modesti compensi e così non aveva mai fatto fortuna. Ma anche il figlio non è da meno in quest’arte dell’arrangiarsi: non è raro infatti vederlo in giro a raccogliere cartone dopo otto ore del suo lavoro. Lo chiamano Balaiaco, ma non è per via che sa ballare.
Pinolo Scaglione, il Nuto, non è ancora arrivato. A metà strada tra Canelli e Santo Stefano Belbo, l’attendo seduto su di una panchina ai piedi di un vecchio tiglio che fa ombra su gran parte della bottega artigiana che “dà su uno stradone”, racconta Pavese nella Luna e i falò.
Star qui mi fa un certo effetto, mi procura emozioni che non saprei spiegare. Pavese vi è passato per trent’anni e mi pare di vederlo arrivare nella sua giacca consunta e con la pipa perennemente spenta, sedersi qui, su questa vecchia panchina a discorrere col Nuto, il Nuto saggio della valle del Belbo, il musicante delle allegre serate che innamorava di sé le ragazze del paese.
Sullo stradone corrono ora macchine assordanti e autocarri. Resta una vecchia bigoncia appoggiata su due cavalletti, ormai annerita dal tempo. È tutto rimasto com’era ai tempi di Cesare, mi ha assicurato ieri il Nuto, aggiungendo che, almeno fino alla sua morte, non verrà toccato niente e darà per questo nel suo testamento disposizioni precise.
Ha settantasei anni il Nuto, ormai vecchio e ingrassato. Ha perfino un paio d’occhiali che non gli nascondono però quegli occhi sornioni, da gatto, come li chiama Pavese. È un piacere sentirlo parlare, alla maniera del saggio, con un periodare minuto, cadenzato, non una parola superflua, arrabbiandosi perfino se l’interrompi, perché, dice, perderebbe il filo del discorso. L’impressione che ne ricavi è di una cultura non appresa sui libri ma dalla vita, le cui avventure sono quelle quotidiane, dove il dolore e la gioia si mescolano fino a diventare l’uno la condizione dell’altra.

Il Nuto l’ho incontrato ieri per la prima volta. Nella sua casa del Salto ci sono arrivato in bicicletta, una tipica del dopoguerra che mi ha prestato gelosamente il padre di Ghione. Non vi abita ma ci viene spesso, quasi a far rivivere luoghi e personaggi che appartengono ormai alla letteratura, nella quale per tutti lui è morto da tempo e non servono certo i tipi come me a liberarlo dal mito dove è stato relegato.
Mi ha fatto, a vederlo, quasi pena, dimenticato, a giudicare dall’indifferenza dei passanti che scorrono ignari sullo stradone ora asfaltato, davanti al Nuto, davanti a questa bottega che ha visto Pavese amare la vita, le lunghe scampagnate… S’allontanavano insieme la mattina per tornare sul tardi e mangiare con tanta fame: passeggiate tra i boschi di queste colline, fino a stancarsi.

La bottega del Nuto sembra ormai un vecchio cimelio. Il fratello, Candido, è morto proprio qualche mese fa. Candido costruiva tavolinetti intarsiati, mandolini, chitarre, violini: aveva la mano di un artista, afferma il Nuto con orgoglio, e questi strumenti non hanno un prezzo, perché non ha prezzo la fatica e la passione per creare queste cose. “Ero otto anni più grande di Cesare”, attacca il Nuto in tono così familiare. «Io gli ho insegnato a nuotare, andare a caccia di nidi, a giuocare, a correre nei boschi, gli raccontavo vecchie storie che a lui piacevano tanto e lui era lì ad ascoltarmi per delle ore, quasi beato. Ero un saltatore io, fin da ragazzo sono stato un selvaggio e facevo delle gare”.
Non è difficile scoprire come dietro i personaggi della Luna e i falò ci sia il Nuto: Valino, Cinto, Silvia, Irene, sono tutti realmente esistiti. Come egli stesso afferma, è stato lui a fornire a Pavese gli elementi per la definizione dei personaggi.
«Hai fatto bene, Pinolo, a lasciare Torino e tornartene a Santo Stefano», gli confidò Pavese «come avrei potuto scrivere i miei romanzi se tu fossi rimasto a Torino?»
Il Nuto per Pavese era l’infanzia, era la terra a cui era legato, era la gente delle colline con la sua saggezza popolare, era colui che conosceva i segreti della vita e a lui ci si poteva affidare con sicurezza. E proprio quando la vita sembrava sfumargli o aveva paura di perdersi in mezzo a gente che non capiva o che era legata a lui per degli interessi, visto che era uno scrittore affermato, allora era il momento che si legava di più al Nuto. Pavese in ogni modo ha sempre cercato un colloquio con la gente, che solo dopo la morte però ha potuto trovare. A quel tempo scriveva sull’Unità e su Rinascita del nuovo ruolo degli intellettuali in quella società nata dalla Resistenza. Parlava dell’artista non isolato che produce le sue opere scavando nel sociale l’individualità di un personaggio. In quanto a questo è stato coerente. L’accusa rivoltagli da Alberto Moravia di essere stato uno scrittore provinciale, si trasforma nella lode più degna, proprio per il merito che ha avuto di far assurgere la provincia, i personaggi e i luoghi più comuni agli onori della letteratura. Pavese ha scritto traendo dalla realtà e dalla realtà è scaturita la storia, la vita, le sofferenze antiche e attuali di una gente, quella delle Langhe, soprattutto contadina, e, come tale, fuori dalla cultura ufficiale. Una gente che Pavese ha riscattato, facendo trasparire una cultura ‘minore’ degna di essere capita da quella colta.
lo starei a sentirlo chissà per quanto. Nuto va a ruota libera, è un vulcano di parole, mi parla di tutto e non solo di Pavese. Non ho un registratore, prendo appunti, faccio fatica a fargli seguire l’ordine delle mie domande, che faccio pure brevi, ma sulle quali mi preme molto sentirlo raccontare.
Nuto, si sa che Pavese prima di morire veniva spesso a trovarti: com’era negli ultimi tempi?
«Vidi Cesare l’ultima volta un mese prima che morisse in modo così sfortunato. Ricordo che stava molto giù, non dormiva, non mangiava e così era anche fisicamente distrutto e s’era preso un esaurimento nervoso. lo che sapevo quanto lui amasse la vita, ricordo di non averlo mai visto così prima d’allora. Quelli però che dicono che Cesare coltivasse il suicidio fin da ragazzo, dicono delle panzane. E poi Cesare era ormai un uomo fatto e a quarantadue anni aveva raggiunto una tale maturità, che se ne sbatteva le scatole di una certa critica a lui di certo non amica. Si fosse ucciso a trentacinque anni, per modo di dire, avrei capito che da tempo coltivasse quel gesto: ma non a quarantadue. Aveva diciassette anni quando un suo coetaneo si uccise per amore (Elio Baraldi - n.d.r.). Qualcuno sostiene che Cesare tentò di imitare quel gesto; non è vero, semplicemente scrisse per lui una poesia. Ne parla pure Lajolo, che è pure un mio amico, ma, vedi, quando uno scrive o riporta dei fatti, dà sempre un’impronta personale a quello che scrive e ciò serve perché il libro venga più letto e apprezzato. Ma mi rifiuto di dedurre una vocazione al suicidio semplicemente da una lettura delle opere di Cesare. La verità è che a quel punto Cesare non aveva altra scelta. Troppe delusioni aveva ricevuto: quelle degli amici, della critica e, soprattutto, delle donne».
Ma che fine avevano fatto tutti gli amici di un tempo?
«Amici come Mila, Bobbio e Vaudagna, ormai li frequentava di rado. L’unico rimasto, Einaudi, s’era sposato e, sai, questo diventa sempre un buon motivo per diradare certe amicizie. Anche Monti, per il quale nutriva una profonda ammirazione, un maestro meraviglioso per lui, Cesare diceva che neanche lui lo capiva ormai. Questo dimostra, secondo me, quanto Cesare avesse smisuratamente superato i suoi compagni.
«Dal 1948 veniva a trovare solo me ormai: gli ero l’unico amico rimasto. Mangiava sempre da me, ma non ci dormiva, non voleva, temeva di dar disturbo alla mia famiglia. La notte lui soffriva d’asma ed era spesso costretto ad alzarsi e aprire la finestra, altrimenti, diceva lui, si sentiva soffocare. Preferiva così andare in albergo, l’Albergo della Posta a Santo Stefano. Cesare era troppo buono e temeva sempre di recarci fastidio. Gli ultimi mesi, per dormire, era costretto a prendere una bustina di sonnifero, in seguito due; ormai aveva raggiunto l’assuefazione. Era sconsolato allora, sfiduciato di tutti».
E il legame con la famiglia della sorella, neanche quello gli era rimasto?
«Nella sua famiglia Cesare è stato sempre un incompreso: in fondo era stato considerato sempre una pecora nera. La sorella Maria e il cognato Sini si vergognavano addirittura di avere un fratello così, soprattutto perché era comunista: Adesso ne dicono bene, anche perché ricavano degli utili sui libri di Cesare: mi risulta infatti che Einaudi passi alla sorella una quota mensile».
Dopo la guerra, Pavese si iscrisse al Pci, ma tu che lo conoscevi così bene, puoi dirmi che tipo di comunista era?
«Cesare, sai, era di sinistra. Anch’io sono di sinistra. Lui e io, in fondo, eravamo dei diseredati della vita. Un mattino, dopo la Liberazione (ero abituato a leggere molti giornali allora per conoscere le varie opinioni), un mattino dunque, trovandomi a Canelli, mi capita sottomano l’Unità e scorgo subito con sorpresa l’articolo di fondo firmato da Cesare. Mi fece meraviglia questo. Sapevo che Cesare era di sinistra, ma non potevo immaginare che avesse scelto di scrivere per l’Unità. Sicché, appena lo incontro gli dico: Cesare, come mai ora scrivi sull’Unità? E lui: “Noi della casa editrice ci siamo tutti iscritti al Partito comunista”.
«lo allora: Cesare, se essere comunista vuol dire essere come te, anch’io sono comunista! Però mi iscrissi ai Partito socialista. Sai, allora, iscriversi al Pci significava tribolare. Molti rischi ho sopportato durante la guerra dando ricovero a dei partigiani, e spesso sono stato sul punto di vedermi bruciare la casa. Dopo la guerra, qui a Canelli e a Santo Stefano, c’era un clima da guerra fredda: i preti e le signore perbene invocavano Dio contro il comunismo. Anche questi, sai, erano capaci di bruciarti la casa.

«Vedi, Cesare però era un comunista particolare. Voglio dire, nella guerra di Resistenza lui non imbracciò il fucile per andare in montagna come gli altri. Io stesso gli sconsigliavo d’andarci, perché il fisico non glielo permetteva. Era gracile e malato d’asma. Ma soprattutto per un’altra cosa Cesare non andò in montagna: lui non era capace di uccidere neanche una mosca. Il sangue lo faceva rabbrividire, non era capace di sparare. Cesare, però, è stato un antifascista della prima ora e, se tutti fossero stati come lui, il fascismo oggi non sarebbe noto neppure di nome. Ci sono tanti cosiddetti democratici in giro oggi: molti sono dell’ultima ora!».
Hai parlato di un Pavese giornalista, ma per tutti Pavese resta soprattutto un poeta, uno scrittore. Da quale attività era più gratificato, secondo te?
«Cesare, dopo quel primo articolo, continuò a scrivere sull’Unità e anche su Rinascita. A me regalò l’abbonamento. Il direttore dell’Unità allora era Lajolo che, come si sa, ha scritto una biografia su Cesare; ma allora niente scrisse che in qualche modo facesse conoscere Pavese al pubblico come scrittore, almeno per confutare certi critici a lui sfavorevoli. Cesare era infatti mortificato per certa critica nei suoi confronti. Tra l’altro era un tipo schivo della pubblicità e desiderava che le sue poesie, i suoi romanzi venissero apprezzati spontaneamente, senza stimolo di nessuno. Era un tipo orgoglioso Cesare. Sentiva di essere una buona penna e pretendeva di essere capito, ma non voleva che qualcuno gli spianasse la strada. Ricordo come fosse ora, quando, dopo aver pubblicato Lavorare stanca, venne per dirmi: “Pinolo, ecco un libro delle mie poesie, tu le sai capire, ma non ne scriverò più perché non c’è stato nessuno che m’abbia detto: ho letto le tue poesie. Una cosa che mi umilia questa: non scriverò più poesie!”.
«Ma Cesare non poteva non scrivere: ce l’aveva nel sangue. Fu Paesi tuoi il suo primo romanzo e lo convinsi io a scriverlo, perché, fino ad allora, non faceva che portarmi tutti quei libri che lui traduceva dall’americano. Fu così che un giorno gli dissi: Cesare, senti, tutti questi libri che tu mi regali sono belli ma io voglio qualcosa di tuo. E lui: “Ma tu pensi che sia facile scrivere un libro?” E io: lo so che non è facile, ma io ti conosco e so che puoi e devi scriverlo».
«Poco tempo dopo si presentò infatti con Paesi tuoi. Ne aveva fatto stampare mille copie. Cento le aveva regalate agli amici, ma le altre rimasero invendute. Era mortificato per questo e un giorno, durante una delle solite passeggiate insieme su queste colline, notando che non era di buon umore gli chiesi: Cesare, scrivi tu una bella critica su Paesi tuoi e la firmo io, vedrai che qualcuno leggerà il tuo libro. Ma lui, indicandomi un’erba cattiva che gli era capitata sottomano, mi fece: “Piuttosto mangerei quest’erba invece d’umiliarmi così”. Si sentiva incompreso e ferito nel suo orgoglio e questo lo portò ad appartarsi e a rifiutare persino la compagnia degli amici».
Negli ultimi tempi Pavese tornava più spesso a Santo Stefano Belbo. Perché e che rapporto teneva con questa sua terra natale?
«Cesare, in fondo, veniva qui per trovare solo me. Non frequentava molto la gente del luogo. A Santo Stefano c’era un cugino, di nome Stefano, che mi pregava sempre di presentargli Cesare, perché non lo conosceva ancora. Io feci presente a Cesare il desiderio del cugino, ma non se ne dimostrò interessato. Un giorno, però, s’incontrarono per caso e si salutarono. Accompagnava il cugino una ragazza di nome Federica e quando Cesare scoprì che si trattava della figlia di un altro suo cugino, quello dei Mari del Sud, se ne affezionò e prese a frequentarla. Il cugino dei Mari del Sud era per Cesare l’unico uomo che aveva veramente contato nella famiglia.
«È in questi luoghi che Cesare ha vissuto la sua infanzia. Una volta finito il baliatico, ricordo che venne allattato da mia sorella Vittoria. Io ero otto anni più grande di lui e appena si fece ragazzo, aveva dieci anni, lo portavo con me tra queste colline del Salto, gli facevo da guida, l’addestravo alla caccia di nidi, di bisce, di uccelli. Gli ho insegnato pure a nuotare. Ma io ero un selvaggio, un saltatore da ragazzo, e Cesare era lì che pendeva dalle mie labbra, con tutte quelle storie che gli raccontavo. Rimaneva delle ore, qui, in bottega, a sentirmi parlare e a vedermi faticare. A Cesare io ho voluto sempre molto bene. E che dire poi del suo ultimo libro, La luna e i falò, le cui storie, i personaggi non sono inventati; sono veri, glieli ho descritti io e lui è stato bravo a farci un romanzo. Certo, non tutte le parole che mi stanno in bocca nel romanzo sono mie, ma questo è il mestiere di scrittore e nel libro spesso io pronuncio parole di Cesare e viceversa».
Una curiosità: Perché Pavese nella Luna e i falò ti chiama Nuto, c’è forse un particolare motivo?
«Ti spiego perché mi ha chiamato Nuto. Cesare aveva già finito la stesura del romanzo, ma non aveva ancora in mente il nome Nuto. Negli ultimi tempi io andavo ogni tanto a trovarlo a Torino, lui era già sofferente. Si era d’intesa che se arrivavo prima delle nove, lui m’aspettava al Caffè Plati; se dopo, lo avrei raggiunto io nel suo ufficio della casa editrice. Quel mattino vi giunsi dopo le nove. Corsi così al suo ufficio, impugnai la maniglia della porta, aprii con sorpresa ed esclamai: Ciao, Cesare! Lui s’alzò in piedi d’un botto e tutto felice gridò: “Benvenuto, sei il benvenuto, nuto nuto!”. Cosi nacque Nuto. Riavutosi dalla sorpresa, raccattò quattro pipe e uscimmo insieme, aveva da fare delle commissioni. Quella volta tornammo insieme a Santo Stefano, in bottega, a prendere l’aria buona, diceva lui».
«Cesare quando mi vedeva era sempre molto felice. Ricordo che parlammo della casa che avrebbe voluto riacquistare: in tempi difficilissimi quella casa era stata venduta per sole duemila lire e riaverla per lui era diventato un chiodo fisso. Si era in una delle solite passeggiate e gli dissi: Cesare, vedo che ci terresti tanto a riavere la tua casa. E lui: “Ci terrei, non ci sono posti più belli al mondo”. Non preoccuparti, Cesare, gli risposi, mettendo insieme i tuoi e i miei risparmi, riusciremo a riavere quella casa. Sai bene che chi l’ha comprata non l’ha fatto per affezione, è stato un mercanteggiamento. Basteranno duemila lire in più e si riavrà quella casa.
«Ma lui: “Perché, tu credi, Pinolo, che io abbia dei risparmi?” Certo che lo credo, sei impiegato alla Einaudi e scrivi un libro all’anno!”. “Di Paesi tuoi”, riprese sconsolato, “non ho venduto una copia, ma tanto, vedrai che un giorno leggeranno i miei libri e avranno dei fastidi per capirli”».
Leggendo le poesie di Pavese s’avverte il suo desiderio di amare, un desiderio però non corrisposto. Tu che sei stato il suo migliore amico, ma anche un fratello maggiore, per quello che mi dici, non ti è mai successo di consigliarlo in fatto di donne? E comunque, che ti raccontava Pavese delle sue donne?
«Passando all’argomento delle donne, queste sono state per lui la delusione più terribile. A quei tempi, parlo del ‘35, io gli facevo conoscere le mie belle e un giorno anche lui finalmente mi fece una sorpresa: “Pinolo, ho anch’io una fidanzata!”. Vedessi com’era contento. Si trattava della donna dalla voce rauca [Tina Pizzardo, n.d.r.]. E passavamo così delle ore a parlare delle virtù e dei difetti delle nostre reciproche fidanzate. Uno di quei giorni Cesare ebbe una perquisizione della polizia fascista e gli furono trovate in camera delle lettere politicamente compromettenti, sicché venne arrestato, prima incarcerato e poi tradotto al confine a Brancaleone Calabro. Dopo, per intercessione della sorella e di un amico, un certo Vaudagna, gli furono condonati due anni e così dopo un anno potette tornarsene a Torino. Nel frattempo, però, la sua bella si era sposata con un altro. Per lui fu tale il colpo che, al riguardo, perdette la stima delle donne: “Non è tanto il fatto di aver perso la fidanzata, sai, può succedere”, si lamentava, “ma come sono stato lasciato io è diverso. Eravamo in così ottimi rapporti, nessun motivo di lasciarci e poi si è sposata in così pochi mesi”».
«Per tanto tempo non ebbe più una fidanzata. Quando negli ultimi tempi fu mandato a Roma dalla casa editrice, qui conobbe un’attrice (Costance Dawling, n.d.r.) che lo elogiava molto. Quando venni a saperlo dissi a Cesare un po’ preoccupato: Cesare, sta bene, non penserai mica di sposarla, si tratta di un’attrice, un’americana… gente difficile. Tu invece hai bisogno di una donna semplice, che ti capisca.
«Ma Cesare ne era innamorato follemente, a tal punto che anch’io mi arresi e arrivai a condividere quel rapporto, anzi gli feci: Cesare, senti, io ho sempre parlato a vanvera, ma da quella sera che t’ho visto partire per Roma per la prima volta ed eri così triste, sai che ti dico? Sposa pure quella donna, con tutto quello che mi hai detto di lei, dove troverai un’altra così?
«E lui raggiante: “Andrò a Roma, nel mese entrante, per combinare il matrimonio, perché in questo momento è assente, è tornata in America, a Roma c’è rimasta la sorella”. E io: Cesare, voglio conoscere questa donna, tra tutte le belle che mi hai raccontato, deve essere una di quelle che io non ho mai visto. “Stai tranquillo”, mi fa, “appena posso la prendo e la porto a Torino. Lei vuole conoscere questi posti, ha letto La luna e i falò, debbo dirti che è l’unica donna che mi abbia veramente compreso”».
«Fu questo il nostro ultimo colloquio. Io purtroppo devo aggiungere che quell’attrice elogiava Cesare perché sperava di far successo in compagnia di uno scrittore ormai di fama (Pavese aveva appena ricevuto il premio Strega, n.d.r.). Ma Cesare era un credulone, pensava che tutti fossero trasparenti come lui e ha creduto pure in quella donna che se ne tornò in America lasciando detto alla sorella che non avrebbe mai sposato Cesare. Penso proprio che a quest’ultima disgrazia Cesare non resse».
Il Nuto non parla più. I suoi occhi, non più grandi, si socchiudono a un pianto interno ma visibile nelle sue ultime parole. Mi fissano i suoi occhi, mi implorano, quasi mi dicono “Basta ora, ti ho detto tutto, bello è il ricordo ma anche amaro”. Così, nella casa del Salto, grava ora uno strano silenzio, imbarazzante quasi, non s’ode più il ‘vulcano di parole’. Su entrambi pesa la medesima sensazione: Cesare, Cesare Pavese, il fumo della pipa, i primi libri con dedica all’amico Pinolo, la sua faccia scarna che sembra una civetta, quegli occhi buoni che un leggero paio di occhiali nascondono invano, Cesare Pavese era lì (Ora, a distanza di qualche tempo, mi è più chiaro quel silenzio: era proprio quel silenzio che si deve a un morto, un silenzio che era soprattutto rispetto). Dai vetri della finestra i contorni delle colline appaiono ancora netti, malgrado il tramonto s’appresta. La porta è semichiusa, è maggio, e giunge gradito quel profumo d’erba fresca che soffia dai prati sul far della sera. Come spinti dallo stesso pensiero, io e il Nuto siamo già sulla soglia. La vecchia bigoncia sospesa sul cavalletto, sul piccolo piazzale antistante lo stradone, mi dà quasi l’idea di un monumento. Ma qui su tutto aleggia il mito e a quest’ora anche le macchine non scorrono più. È Nuto a rompere il ghiaccio:

«E quando vai a casa e metti ordine ai tuoi appunti non scrivere delle panzane, eh?»
«Non preoccuparti, Nuto, non le scrivo e poi voglio bene a Pavese, lo stimo soprattutto come poeta e scrittore».
«Se lo merita!»
E salta fuori a questo punto la sua intolleranza verso quanti su Pavese hanno scritto senza averlo veramente capito. Il suo, però, è il risentimento di un padre che non gradisce che s’offenda la memoria di un figlio. Il discorso cade facilmente su Moravia: «Se venisse qui a parlarmi di Pavese, gli direi che è un birbaccione e che non ha capito niente!»
«Stammi bene, Nuto, ti auguro una vita lunghissima».
«Tanti auguri a te che sei giovane».
Mi voltavo così per andarmene: «Come ti chiami, a proposito?»
«Alfredo, Alfredo Romano».
«Bene, me ne ricorderò, non è un nome difficile da ricordare».
Così ha raccolto un gesso e, su una tavola appoggiata alla parete, vi ha scritto il mio nome e indirizzo. Poi è sparito nella sua utilitaria, mentre io in bicicletta inforcavo la strada del ritorno verso Canelli. Appena mille metri e, per caso, l’ho intravisto in un campo arato ai piedi di una collina, che gesticolava con dei trattoristi gridando a gran voce. Toh, eccoti il Nuto, mi son detto, e chissà quanto darebbe Pavese, ora, per vederlo così. Malgrado l’età, è rimasto lo stesso della Luna e i falò: i suoi occhi sornioni, da gatto e sarebbe ancora capace di fare delle gare e con la nota del suo clarino ispirare tenerezza a qualche ragazza del luogo, di quelle che, quando vendemmiano, ti offrono un grappolo d’uva e si avrebbe voglia d’addentarlo in una sola volta.
Alfredo Romano

(Pubblicato su IL PONTE, agosto-settembre 1991, nn. 8-9)
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TESTIMONIANZE
Un articolo di Gaetano Pampallona, poeta e scrittore, morto a Roma nel 2003, apparso sul Corriere di Viterbo il 3 gennaio 1991
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Sempre di Gaetano Pampallona:
SAGGIO ALLA RICERCA DELL'UOMO E DELLO SCRITTORE SULLE ORME DI CESARE PAVESE
Apparso su IMPUT, periodico mensile di informazione e cultura, Roma, nov. 2000, n.55.

Sono varie e suggestive le testi­monianze di amici e di letterati sulla vita, tra citt
à e campagna, di Pave­se raccolte da Franco Vaccaneo nell'in­teressante opera "Sulle orme di Cesare Pavese", Edizioni Omega, 1999. Vale la pena riferire sull'intervento dello scrittore Alfredo Romano perché presenta tutti i tratti del saggio-documento. Romano infatti rimemora un suo viaggio che l'ha portato nei luoghi e fra gli individui che furono cari a Cesare Pavese al punto che entrarono da protagonisti nei suoi libri, da "Lavorare stanca" a "Paesi tuoi", da "Feria d'agosto" a "La luna e i falò". E specialmente de "La luna e i falò" l'ultimo romanzo, scritto poco tempo prima della sua tragica fine, si occupa Romano così che le Langhe, Camelli, Santo Stefano Belbo e il Nuto, il personaggio chiave del ro­manzo (il suo vero nome è Pinolo Scaglio­ne), sono ricorrenti in tutto il testo. Di Nuto sono le toccanti confidenze, messe insie­me nel saggio, allo scopo dì ricavare la na­tura vera ed intima di Pavese, uomo e scrittore. In tal modo, oltre che una descri­zione strettamente connotativa di luoghi e persone, viene incisa un'attrazione poetìca che ben si coniuga con l'eco del lin­guaggio pavesiano. Quel linguaggio che Giorgio Barberi Squarotti definisce rappre­sentativo di una calca di déracinés, di per­sone oppresse dalla solitudine, irregolari, incapaci di rapporti umani, inquiete, tor­mentate dal desiderio di un mondo avven­turoso e libero.
Per questa via il livello di presenza del saggista nell'ambito dell'alie­nazione sgomenta e disperata del pianeta Pavese, giunge alla matrice psicologica di straordinari prototipi, dipanando in modo appassionato complesse, angosciate pro­blematiche. Così facendo, Romano muo­ve una scrittura di scavo e di annotazioni sui registri della speranza e della sconfìtta, inerenti al mondo che ruotò intorno a Pa­vese, con quanto di straniato e mitico, in­decifrabile, è in esso contenuto.
Per que­sto ordine di motivi si mette nella giusta lu­ce l'intricata fenomenologia delle incom­prensioni e delle violenze, proprie di una certa campagna piemontese, chiusa e "barbarica" con i suoi odi, le sue proteste, le sue vendette. Per altro verso, Romano indaga così magistralmente nella turbata ricezione che ne ebbe Pavese in relazione ai suoi conflitti e alle sue contraddizioni da lasciar venire in evidenza i! fallimento di quel suo bisogno ossessivo di cambiarsi, di quell'andane oltre lo stesso interrogativo de! vivere.
Si accennava più sopra a Nuto, 'amico illetterato che ha raccontato a Ro­mano, il Pavese de "La luna e italo". Attor­no a questo personaggio - a nostro parere - si fissano i momenti più efficaci del repor­tage, per gli effetti dì un assai singolare, rea'istico contrappunto. Dice Nuto: "La notte Cesare soffriva d'asma ed era co­stretto ad aprire la finestra, altrimenti si sa­rebbe sentito soffocare; preferiva così an­dare in albergo, l'Albergo della Posta a Santo Stefano, e non restare, dopo cena a casa mia per non dar fastidio. Cesare era troppo buono". Ed ancora: "Negli ultimi tempi persino Monti, il maestro per il quale Cesare nutriva una profonda ammirazione, e amici come Mila, Gobbio, Vaudagna si erano come dissolti. Cesare non lì cercava più. Troppe delusioni aveva ricevuto: quel­le degli amici, della critica, e delle donne soprattutto. Le donne le vedeva come il ri­paro cui approdare dopo tante traversie culminate con il confino a Brancaleone Calabro.
Della 'donna dalla voce rauca', e poi dell'attrice Costance Dawling, che lo elogiava, amava sempre raccontare". "Per me - continua Nuto - la Dawling lo elogia­va perché sperava dì far successo in com­pagnia di uno scrittore ormai famoso, che aveva appena ricevuto il 'Premio Strega'! Pensava che tutti fossero trasparenti co­me lui e quindi credette anche in una don­na che se ne tornò in America lasciando detto però alla sorella che non lo avrebbe mai sposato. Penso proprio che a que­st'ultima disgrazia Cesare non resse". Si susseguono così con tanta intensità le te­stimonianze del Nuto in modo che noi pos­siamo toccare con mano il Pavese dei no­stri affetti. Testimonianze che si legano a tante altre di persone "sempiici" che lo co­nobbero, e il cui lessico senza dottrina tra­smette, è il caso di dirlo, più alta e schietta la corale solidarietà.
Il Nuto e le persone semplici non sape­vano certo delle prime poesie di "Lavo­rare stanca" o di quelle della seconda rac­colta "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi". Né sapevano, naturalmente sotto il pro­filo critico-letterario, delle opere narrati­ve. Di sicuro intuivano la pavesiana tena­cia contestativa dì un ordine sociale ingiu­sto e oppressivo, il cui controcanto non poteva che essere la solitudine sconfor­tante
dell'uomo indigente, cinicamente sfruttato e offeso.
Gaetano Pampallona


LU NANNI ORCU E ALTRI RACCONTI SALENTINI / testimonianze




Nardò, Besa, 2000, prima edizione
Disegno di copertina di Maria Berto

Una recensione di Zeffirino Rizzelli apparsa sul quindicinale "Il Galatino", da lui diretto, del 7 aprile 2000. Zeffirelli è stato giornalista e scrittore di Galatina, direttore didattico e sindaco della stessa città. E' scomparso nell'agosto 2007.

In un libro pubblicato dalla editrice Besa l’amore che
Alfredo Romano nutre per la sua terra d’origine

I RACCONTI DI UN TEMPO PASSATO
Il ricordo personale, a distanza di tempo, soprattutto se è doloro­so, si mescola al racconto storico, si adegua alla memoria collettiva e modifica il significato e il valo­re del male, del dolore, della mor­te. Questo, soprattutto, quando il contesto dominante in cui esso riemerge nega la concreta realtà di quel passato per in­nalzare inni al successo, al benessere, al diritto di feli­cità.
L'esperienza delle genera­zioni precedenti, divenuta memoria genetica, non può essere solo ricordo perché si mescola a quella storia che interroga il passato a partire dal presente. Quando poi chi scrive quella storia si è trova­to a vivere l'esperienza dell'emigrazione, quella che rompe il rapporto con la pro­pria terra, la propria lingua, la comunità di appartenenza, allora il ricordo acquista la valenza di "testimonianza". A questo punto alcuni op­pongono un rifiuto netto al passato e perdono le radici dei luoghi e della comunità; altri caricano il passato di nostalgia, ne fanno un "bene personale" e si lasciano inva­dere dal nobilissimo senti­mento della "appartenenza".
È per tutto questo che, quando ho ricevuto in dono da Alfredo Romano il suo "Lu Nanni Orcu", edito dall'Editrice Besa, mi sono' accorto che lo aspettavo. Questo libro, infatti, è la logica continua­zione dei precedenti "Salento tra, mito e realtà" (1993), "Ci sono' notti che io" (1994), "Cantavamo Contessa" (1998).
II presagio più evidente crai proprio nell'ultimo, "Cantavamo Contessa", perché in quel "racconto" risulta più evidente l'amore struggente ed esaltante che il Romano si porta dentro: amore, per la sua terra d'origine, per i fa miliari rimasti nel contesto ambientale della sua giovinezza, per il clima relazionale che ancora - a volte - emerge nei suoi "ritorni". II livello culturale raggiunto consente di dare al tutto la valenza di "testimonianza" e quindi di recuperare un patrimonio importantissimo che va scomparendo.
In "Cantavamo Contessa", la vacanza estiva in Grecia si trasforma in un ritorno in patria, in una ricerca continua e minuziosa di verifica. È il racconto di un'avventura giovanile che avrebbe po­tuto indugiare su altri temi, porre in risalto altri aspetti. Invece ricerca e fa emergere le identità di usi e costumi, di tradizioni e linguaggi, di sentimenti e reazioni, di tutto ciò che è comune alle due sponde del "canale". Il Canale di Otranto. I paesaggi si confondono e si appartengono come le mitologiche leggende ed i sapori forti del vino, delle melanzane, dei peperoncini, come il richiamo possente del mare, delle scogliere, delle ragazze, delle notti sulla spiaggia e sotto la luna. E lui, protagonista, è Japige, è Messapo che incontra non le ragazze di oggi ma Elena, Venere, non gli uo­mini contemporanei ma Achille, Ulisse. Tutta la mitologia rivive nella corpulenta ostessa e nel venditore di vino.
È il sogno di un'estate, è l'e­sperienza di un momento che di­venta occasione per radicare, nel ricordo nostalgico, il bisogno di appartenenza.

Ed ecco “Lu Nanni Orcu”.
Racconti salentini, soprattutto racconti fatti dagli amici, dai pa­renti, dai conoscenti anziani nei tempi della fanciullezza e ripetuti in tempi meno remoti; ricostruiti e appuntati come a fermare sensa­zioni e sentimenti del passato, di quel passato fatto di secoli che scorre col sangue nelle vene im­pegnando il cuore ed il cervello.
Racconti salentini che sarebbe meglio dire "dal Salento", da un Salente che scompare dalla realtà quotidiana per emergere robusto e vitale nel "testimone" e divenire documento storico. Infatti non è la trama o l'episodio che interes­sa; è il racconto come evocatore di condizioni sociali, di sentimen­ti, di sensazioni ormai desuete, di coinvolgimenti delle piccole storie nella grande Storia. È la parola come suono ed è il suono come logica, proprio come in un accordo musicale dove il significato semantico delle parole non serve.
Il ritmo con cui le parole si inseguono, si incatenano, si snodano evoca quanto urge in fondo al cuore e alla mente. Così, e lo dice lo stesso autore in premessa ai racconti, quello che conta è il suono della pa­rola.
La raccolta delle "narra­zioni di un tempo" è una composizione nella quale è inutile cercare grammatica, sintassi, fonetica perché queste non fanno più parte di quel sentire collettivo odierno che ha affogato nel ricordo nostalgico e dolcis­simo la povertà, la miseria, l'umiliazione, la discrimina­zione, non personali ma di un popolo, per trasferire tut­to e solo sugli schermi tele­visivi come fatti estranei che non toccano più i viven­ti.
Per questo ogni racconto è un quadro d'epoca, uno squarcio di vita di paese, un pezzo di cuore da esibire come gioiello di famiglia, quella collettiva, come diadema di casata, della propria gente, come blasone di un legame senti­mentale nobilissimo e profondo, questo sì personale. Perciò l'at­tenzione massima si concentra negli accenti, negli intercalari, nelle ricostruzioni dei modi di dire, nel "parlato", per far rivive­re in chiave documentaria un mondo che non c'è più nella realtà, ma che non è morto per­ché "al mio paese nessun morto è mai morto". "Lu Nanni Orcu" è un libro da leggere un poco alla volta in modo da lasciare che la fantasia lavori lentamente per ri­costruire il contesto che nasce dalla luminosa atmosfera del ri­cordo-sensazione.
Zeffirino Rizzelli
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Nardò, Besa, 2001, seconda edizione





Nardò, Besa, 2008, terza edizione


Introduzione di Eugenio Imbriani, ordinario di storia delle tradizioni popolari, Università di Lecce, al volume "Lu Nanni Orcu e altri racconti salentini" di Alfredo Romano. Nuova edizione.

Chi si occupa di tradizioni popolari subisce spesso e volentieri la tentazione di cedere all’intenzione che potremmo definire “del salvataggio”. In particolare, le espressioni orali della cultura popolare sono volatili, fluide. La scrittura si configura, allora, come intervento di salvataggio dei racconti e delle notizie, delle testimonianze riferibili a un modello di vita che, nella sostanza, appartiene al passato. La scrittura risponde anche alle esigenze della comunicazione: la monografia, la restituzione della ricerca tramite il testo scritto, si muovono nella direzione di potenziali lettori per i quali scompare, di fatto, o, almeno, si appiattisce, la figura del narratore. Sicché le storie di Hansel e Grätel, di Biancaneve sono dei fratelli Grimm, che le hanno pubblicate, Il gatto con gli stivali è una fiaba di Charles Perrault molto più di quanto non appartengano, nell’accezione comune, ai narratori che gliele avevano raccontate. La narratrice di storie più famosa, Sherazade, che, per non morire, ne inventa per mille e una notte e oltre, è essa stessa il personaggio di una fiaba; ma chi raccontava questa fiaba? Delle migliaia di voci che per secoli l’hanno tramandata non ne conosciamo alcuna. Sherazade è per noi, innanzitutto, essenzialmente una parola scritta, prima di essere letta, enunciata, prima che la figura della giovane donna acquisti corpo nelle immagini cinematografiche, o televisive, o disegnate.
Il pregio maggiore della presente raccolta di fiabe salentine è, a mio parere, costituito dal fatto che l’autore di essa leghi i testi alle figure dei narratori, informatori che gli sono stati molto vicini e di cui conosciamo qualche notizia biografica, e qualche altra sul loro modo di raccontare. L’anziano Pasqualino, il nonno materno, racconta le avventure di papa Galeazzo – mitico curato cialtrone di Lucugnano vissuto, pare, nel XVII secolo, protagonista di aneddoti classificabili tra lo scherzoso e il pecoreccio –; sapeva leggere e scrivere, e allora, da giovane, leggeva nei libri le storie che la sera raccontava alle figlie accanto al caminetto; attingeva anche alle rappresentazioni che le compagnie teatrali provenienti dalla Sicilia tenevano nel frantoio di Collemeto.
La vicenda personale di Pasqualino meriterebbe di entrare nel ciclo delle narrazioni, e troverebbe degnamente posto tra i cunti del volume. Era un macellaio molto stimato a Neviano, il suo paese (siamo in provincia di Lecce); aveva sette figli di cui sei femmine e, preoccupato dalla necessità di dotarle e collocarle tutte dignitosamente, decise di investire i suoi risparmi in un affare che gli avrebbe reso moltissimo: acquistare un intero carico di asini, per venderne la carne alle macellerie di altri paesi. Si recò in Calabria, qui fece stipare in vagoni merci gli asini provenienti da diversi allevamenti. Ma quelle bestie, assiepate com’erano in uno spazio ridottissimo, si aggredirono reciprocamente a calci e morsi, tanto che, quando il treno arrivò a destinazione, ben poche erano sopravvissute, per di più malconce. Così accadde che Pasqualino, per aver voluto arricchirsi in poco tempo, perdette tutto quello che aveva, fu costretto a lasciare il paese, con la numerosa famiglia, a rimboccarsi le maniche e a ricominciare da capo.
Maria Neve, la moglie di Pasqualino, aggiungeva alla abilità narrativa una peculiare verve drammatica, per cui imitava con la voce e i gesti suoni, situazioni, personaggi, che dovevano sembrare chissà quanto più veri e chissà quanto più arcani ai giovani spettatori.
Altri narratori di primo piano sono i genitori stessi di Alfredo Romano, che esercitano la loro arte fino allo stremo. Giovannino, sul letto di morte, raccoglieva le forze per dare quel che restava di sé ai visitatori che entravano pietosi nella sua stanza di malato e se ne uscivano divertiti. Lucia dettava al figlio che, sul quaderno, trascriveva le parole, ma non poteva fissare la voce, il tono, le cadenze, gli sguardi, i gesti della madre.
La scrittura tradisce sempre la situazione narrativa. La trascrizione salva i testi, rendendoli nel contempo fissi e sottraendoli, ormai, alla dinamica sempre diversa del racconto orale. La scrittura molte cose conserva, i testi, le parole, molte altre ne perde: l’esperienza del narrante e dell’ascolto seleziona alcune parti del discorso, ne esclude altre: se i dialoghi di Romano con la madre si fossero limitati solo alla narrazione di alcune fiabe, essi si ridurrebbero a una specie di monologo a puntate complessivamente breve e piuttosto arido. La scrittura, allora, qualcosa conserva, qualcosa perde, qualcosa aggiunge; per esempio, stabilisce un ordine alle storie, interviene sui testi con dei segni di interpunzione e diacritici che ne agevolino la lettura, li dota, come in questo caso, di una godibilissima traduzione in lingua italiana.
Ma veniamo brevemente a un’altra questione: che cosa sono le fiabe, e che cosa ci dicono? Non entrerò nel merito di un dibattito tanto lungo e complesso su questi temi, che sfiorerò soltanto per fornirne un’idea.
Forse molti sanno che la narrativa di tradizione orale è stata ampiamente analizzata, sezionata, è stata oggetto di classificazione; esistono indici e repertori che scompongono i testi in motivi, i quali rappresentano le unità narrative minime, e per tipi, vale a dire, grosso modo, in base al soggetto, all’argomento che toccano.
Le migliaia di motivi che costituiscono le fiabe si mescolano variamente tra di loro, dando vita a una serie di combinazioni in teoria infinita. Poiché si tratta di testi di tradizione orale, come abbiamo già detto, nessuna fiaba narrata una seconda volta rimane perfettamente uguale alla versione precedente. I motivi viaggiano in lungo e in largo per il mondo, al seguito di mercanti, pellegrini, migranti. I motivi viaggiano anche tra la letteratura colta e la letteratura popolare, per cui non c’è da meravigliarsi di trovare nelle fiabe elementi narrativi riscontrabili, per esempio, nelle novelle di Sacchetti e di Boccaccio; per tacere di Basile che nel Pentamerone raccoglie un patrimonio di storie popolari.
Le migliaia di motivi e le centinaia di tipi riscontrabili nelle fiabe danno vita in realtà a trame molto semplici che si susseguono e si ripetono secondo sequenze e schemi abbastanza rigidi. Le migliaia di personaggi che le affollano svolgono tutto sommato poche funzioni; il grande folklorista russo Vladimir Propp, studiando le fiabe di magia, ha individuato una serie di azioni che, comunque, i personaggi compiono: c’è una situazione iniziale, il protagonista è chiamato a superare alcune prove, c’è un avversario, un aiutante magico, la soluzione. È come se nelle fiabe esistesse una sorta di meccanismo narrativo, che i novellatori hanno seguito tramandandolo nello spazio e nel tempo, rincorrendo e intrecciando i motivi. Non basta raccontare, bisogna saper raccontare, come con chiarezza suggeriscono gli stessi narratori delle storie raccolte da Alfredo Romano.
Questo universo così articolato e multiforme sembrò semplicemente indominabile a Italo Calvino chiamato a redigere la raccolta delle Fiabe italiane, uscita, poi, nel 1956. Calvino confessava allora che quell’impresa editoriale lo esponeva a una sorta di malessere che nasceva proprio dal rapporto con un elemento non formalizzato, fluido, qual è la tradizione orale. Eppure l’iniziale diffidenza svanì nel corso del lavoro, durante il quale lo scrittore si trovò immerso nella precipua logica dell’incantamento: «Ogni poco», scriveva nell’introduzione, «mi pareva che dalla scatola magica che avevo aperto, la perduta logica che governa il mondo delle fiabe si fosse scatenata, ritornando a dominare sulla terra». E continuava, parlando di un suo intimo convincimento che giustificava il motivo per cui ciò poteva accadere: cioè, che le fiabe sono vere. Costituiscono un «catalogo dei destini», una «casistica di vicende umane», un disegno sommario della vita, rappresentano «l’infinita possibilità di metamorfosi di ciò che esiste».
Possiamo immaginare la vertigine di fronte alla sterminata e prodigiosa campionatura di ciò che è narrabile, che egli aveva davanti a sé. Eppure il gioco appariva dotato di regole; come per gli scacchi i movimenti sulla scacchiera sono determinati, eppure è possibile giocare un numero infinito di partite diverse, allo stesso modo la fiaba popolare si modella su strutture fisse che consentono infinite variabili.
A tutto questo si aggiunge la peculiare abilità dei narratori, che si traduce nell’applicazione di una vera e propria tecnica della narrazione orale. Su questo concetto Calvino si soffermerà ancora nelle Lezioni americane (1988); tra i valori letterari da tramandare al nuovo millennio c’è la rapidità, e il luogo in cui meglio si esprime è proprio la narrazione orale. «La tecnica della narrazione orale nella tradizione popolare», scrive nelle Lezioni, «risponde a criteri di funzionalità: trascura i dettagli che non servono ma insiste sulle ripetizioni, per esempio quando la fiaba consiste in una serie di ostacoli da superare. Il piacere infantile di ascoltare storie sta anche nell’attesa di ciò che si ripete: situazioni, frasi, formule»; e più oltre rivelava di aver incontrato il massimo piacere quando un testo era laconico e doveva cercare di tradurlo in lingua rispettandone la concisione. Credo che Alfredo Romano, che si è cimentato nella traduzione delle sue fiabe, comprenda bene che cosa Calvino intendesse.
Eugenio Imbriani

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INTRODUZIONE ALLA PRESENTAZIONE DEL VOLUME
"LU NANNI ORCU E ALTRI RACCONTI SALENTINI"

Cenate di Nardò, agosto 2001


Il bisogno di scrivere è per me vitale come il bisogno di mangiare, di respirare. I motivi possono essere tanti, ma ce n'è uno in particolare che qui, oggi, mi preme dirvi: è l'essere andato via. A 16 anni passa un caporale con un furgone stipato di facce scure e pensierose e ti porta via. Ti lasci dietro tutto: l'infanzia, gli affetti, gli amici, il primo amore. Ti lasci dietro parole, suoni, profumi, odori, la frisa, li maccarruni fatti ccasa, la ricotta schianta. Ti lasci dietro il mare.
Dopo, la vita è tutta una corsa a ricuperare, a ricordare, a non dimenticare. Si sa, si ama ciò che non si ha, e tutto ciò che hai lasciato viene relegato nel mito. Scrivere è fermare quel mito, stagliarlo sul tuo orizzonte, sulla tua identità. Restando a Collemeto, non avrei mai avuto bisogno di affermare la mia identità, ma ora mi tocca farlo, ogni giorno quasi: io vengo da Collemeto, dalla Lecce barocca, dalla Terra d'Otranto.
Succede che siano gli altri, a volte, a metterti in discussione, e tu stesso vai ripetendo: ma io chi sono? da dove vengo? Che cosa posso scambiare con quelli che parlano, mangiano, vestono e pensano diversamente da me? Ho detto bene: lo scambio. E sì, perché se non dài, nessuno ti dà niente.
Ed ecco che s'affacciano prepotentemente quelle radici che scopri millenarie, e le presenti a chi ti circonda su un piatto d'argento. Lo scambio si può fare, la ricchezza è servita. Non sono superiore, né inferiore: io ho da dare, e quindi sono! E questo grazie anche alla terra che mi ha generato.
I racconti, perché i racconti? Scriverli è stata un'idea di qualche tempo fa. Prima, per tutto il tempo, amavo dirli. Lo facevo imitando il modo di porsi, i gesti, le espressioni dei miei nonni, dei miei genitori. Mi piaceva: era anche un modo per far rivivere le persone care che non ci sono più.
I miei amici poi si divertivano tanto col nostro dialetto colorito: c'erano suoni, espressioni, movimenti facciali, parole che non avevano sentito mai. Poi sono passato al repertorio delle canzoni, tante. Insomma oggi io mi posso permettere di parlare tranquillamente in dialetto con gli amici miei, capiscono tutto. Essi stessi lo parlano a volte: naturalmente si esibiscono in quell'espressioni più curiose che sono le imprecazioni, o quelle prese dal linguaggio culinario. Il termine schiattarisciare, per es. è quello che li diverte di più: Li pummitori schiattarisciati, Ci cu tte schiatatriscia 'nu tronu, ecc.
Ma poi scriverli. Chissà, forse perché vuoi che li cunti si continuino a raccontare, che non si perdano. La vita passa come un bel vento, più avanti con gli anni anzi, sembra che abbia fretta di passare. E poi, lasciatemelo dire, di questi tempi, mi piace questo modello letterario, e cioè la scrittura che si fa racconto orale, che si fa fiaba. Quando nel dopoguerra arrivarono le prime radio, i nostri vecchi, che pure erano attratti dal comunicato, il giornale radio di allora, presero a dire che con la radio gli uomini avrebbero parlato di meno e ascoltato di più. Poi arrivò la televisione, e gli uomini, non solo avrebbero parlato di meno, ma anche ascoltato di meno: l'immagine, il guardare avrebbero preso il sopravvento. I nostri vecchi insomma non raccontano più, nessuno li sta più a sentire.
Eppure c'è un movimento di opinione, di resistenza bisogna dire, che oggi si fa strada, soprattutto nelle scuole. Sono un bibliotecario, poi, se volete, sono anche un animatore che diverte i bambini. Bene, frotte di bambini con le maestre mi vengono in biblioteca non solo per conoscere la biblioteca, ma anche per mettersi ad ascoltare o leggere qualche racconto. Quello del Nanni Orcu (naturalmente in italiano), ha avuto molto successo. I bambini, in genere con l'aria di essere degli adulti precoci, tornano finalmente bambini e si immergono piacevolmente nel mondo incantato della favola, del racconto che sia.
Si parla di infanzia negata. Ecco, credo che la scomparsa del racconto orale vi abbia dato un contributo significativo.

Da più parti sento dire che bisogna riscoprire la fiaba, perché il racconto aiuta i bambini a crescere. Al pari del mito, la fiaba ripropone temi immutabili, come il conflitto tra Bene e Male, la morte e la rinascita, l'invidia, il ribaltamento delle situazioni, la vanità, la sconfitta. Questa reltà paurosa il bambino la proietta all'esterno, e quindi può permettersi di guardarla, prenderne le distanze, di oggettivarla. Tutto ciò lo rassicura, gli permette nuovi assetti emotivi e anche nuove capacità di pensare.
Con gli spazi esigui e i ritmi serrati della nostra vita sociale però, non c'è più tempo per raccontare. E' un'occasione persa sia per i bambini che per gli adulti. Perché anche gli adulti hanno bisogno di inventare, di immaginare, di fantasticare per poi comunicare, commentare, interloquire.

Le nuove tecnologie non devono e non possono dissolvere un patrimonio orale che ha avuto un ruolo fondamentale in tutte le tappe della nostra crescita, un patrimonio di grande umanità per finire.

Alfredo Romano


TRADIZIONI POPOLARI E STORIE DI VITA NEL SALENTO / testimonianze

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Nardò, Besa editrice, 2005
Disegno di copertina di Maria Berto
Lettera manoscritta di Giorgio Mario Bergamo, scrittore di Mestre (Venezia).
Ha pubblicato con Einaudi, Cappelli e Mursia
24 gennaio 2008


Caro Alfredo,
[...] anche il volume sulle tradizioni e storie salentine mi sembra ottimo, equilibrato, gustoso, capace di proiettare il lettore in una full immersion fin nei meandri di quelle vite di provincia profonda che tu [...] rappresenti dal vero. Tutto il nostro...
Giorgio Mario Bergamo
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Luigi Cimarra, studioso tradizioni popolari, linguista, scrittore
IL SALENTO DELLA MEMORIA
Qualche volta torna utile portare avanti la lettura di due libri in contemporanea, anche se tra di essi all'inizio si presume che non vi sia nessun legame, nessun punto di contatto. Ci si accorge poi che è la mente a determinare sintesi, a trovare valenze improvvise ed imprevisti riscontri. Così mi è capitato in questi giorni di avere tra le mani il volume del mio amico bibliotecario (dovrei aggiungere molte altre qualità... ma mi limito all'omerico 'multiforme ingegno') Alfredo Romano, cioè 'Tradizioni popolari e storie dì vita nel Salento' e il lavoro di Filippo Faloppa, un linguista impegnato, oserei dire d'avanguardia 'Parola contro. La rappresentazione del diverso nella lingua italiana e nei dialetti'. Libri entrambi recenti, il primo profuma ancora di inchiostro. Devo confessare che a divorare in due nottate il libro di Alfredo mi ha spinto anche la generosa dedica, di cui egli mi ha voluto far omaggio, che io naturalmente non merito, ma che ho gradito. A sua volta il lavoro del giovane linguista affronta una tematica attualissima. Egli senza mezzi termini afferma: "Le parole possono uccidere. Ce ne rendiamo conto ogni giorno di più, mentre vocaboli come 'nazione', 'patria', 'popolo', 'etnia', talebano' o 'negro' vengono usati come armi per difendere la nostra identità vera o presunta, per aggredire l'altro, per umiliare il 'diverso', quello che si ritiene ostile, impuro, indegno. Spesso l'amico e il nemico vengono creati artificialmente, anche attraverso l'uso di termini che includono o escludono, accolgono o allontanano". Mi si obietterà (ed anch'io me lo sono chiesto): che ci accatta il Salento con il 'talebano'? Il Salento di certo nulla, perché rievoca mari incontaminati, colori primitivi e vividi della terra, suoni arcaici ed arcani, voci d'oltremare, aromi densi che inebriano l'anima. Ma basta sostituire la parola e dire 'leccese'... perché tutto si rimescoli in colori duri e tetri: "leccesi magnabracchetti", "leccesi-tutti appesi", leccese = terrone, leccese = 'inciviltà, ignoranza, barbarie... '. Ma che lo si voglia o no, Civita è diventata un lembo del Salento, Civita è stata la terra promessa per centinaia di diseredati... per i coltivatori di perustiza... per i guastasi (parola antica, di ellenica musicalità, se si fa derivare dal greco bastàzo). Oggi, ad integrazione avvenuta, quasi non ce ne ricordiamo più, ed è un bene... A ricordare l'origine rimangono solo i cognomi, un'etichetta convenzionale, ma la nuova linfa ha rigenerato la 'stirpe' falisca, l'ha ritemprata, come in precedenza avevano fatto i laboriosi e tenaci marchigiani. Nella biblioteca comunale campeggia oggi una sezione salentina, ricca di memorie e di immagini, nella quale le culture messapica, greca, romana, normanna, albanese si fondono ed attingono ad una sintesi originale ed irrepetibile. Ma i leccesi (per carità, con la elle minuscola!) non erano un popolo senza cultura? Non erano i 'diversi'? I senza nome e senza storia? Alfredo, in un volume compatto, metodologicamente irreprensibile, editorialmente accattivante, ci offre uno spaccato particolare del Salento, cioè della sua terra, delle sue radici più intime e vere. Ci presenta con la mente e con il cuore, come fa quando esegue le Pizziche tarantate, il mistero di una tradizione. Egli ripropone la sua cultura, che la memoria si rifiuta di obliterare, perché è fatta di sentimenti e di affetti, di fatica e di sudore, di volti familiari e di mani nodose, di sorrisi e di pianti, di fantasia e di passionalità, di sacralità e di magia, di fede e di corposa materialità, di nascita e di morte, di amore e d'odio, in una parola di un'esistenza, che per lui e in lui rivive in volti umani, nella quotidianità, nell'emigrazione forzata. Una cultura che si innerva nella sua famiglia, nei suoi amici, nella sua piccola comunità, una cultura partecipata e condivisa. Canti, orazioni, proverbi, scioglilingua, indovinelli, modi di dire, etnotesti, favole e racconti, improperi, in pratica tutto un mondo appare davanti a noi e si disvela nella parola e nei suoni. Il folklorista vi trova conferme per le sue ricerche: anche nel meridione si rinvengono testimonianze del canto epico-lirico; la versione del canto della Passione (Le ventiquattro ore) connette la Puglia con una tradizione diffusa in molte regioni d'Italia fino all'Istria; le tritici parole te la verità appartengono ad un orizzonte culturale che interessa tutte e tre le religioni monoteiste. Ma il libro non si rivolge agli specialisti, è stato concepito e realizzato come un libro per tutti, a partire dalla copertina, illustrata dall'estro creativo della professoressa Maria Berto. Non vi si trovano apparati eruditi, pesanti commenti di carattere filologico, glossari, indici analitici, ma la fruibilità è pienamente garantita da chiare note illustrative, da una traduzione elegante ed insieme semplice dei testi, da commenti pieni di verve, di ironia sapida e misurata. Si sa... ogni libro è un segreto che si rivela. In questo caso Alfredo Romano con il suo Salento ci ha rivelato la profondità della sua anima.
[Recensione apparsa sulla “Gazzetta Falisca”, periodico mensile di Civita Castellana, nel novembre 2005].



PREMESSA di Massimo Marzi, amico pianista, che ha curato la trascrizione musicale dei brani delle canzoni popolari salentine.

"L'affetto più che fraterno e la grande stima per Alfredo Romano mi hanno spinto ad accettare subito la sua proposta di dare una partitura ai canti popolari raccolti in questo volume.
Pensavo inoltre che, pur essendo musicista nel campo della musica colta senza specifiche esperienze nel campo della musica popolare o in etnomusicologia, non avrei incontrato particolari difficoltà nella trascrizione. Mi sbagliavo!
Il materiale su cui lavorare era racchiuso in registrazioni amatoriali dove Alfredo (grande incantatore nel recitare e cantare, travolgente quando col suo tamburello scatena il ritmo irrefrenabile e ipnotico della pizzica tarantata), oltre alle proprie interpretazioni, aveva raccolto le voci di anziani e rappresentativi cantori salentini. Per la maggior parte si trattava di voci sole senza accompagnamento strumentale. Alcuni di questi canti vengono da lontano nel tempo, altri sono la reinterpretazione popolare di un repertorio storico a noi più vicino.
La libertà esecutiva di queste interpretazioni mi ha posto subito dei problemi. Ho avuto in un primo momento la tentazione di "correggere", di "quadrare", ma, così facendo, molto del fascino di quelle esecuzioni sarebbe andato perduto. Fermare sulla carta il senso dell'improvvisazione, l'arguzia, il sentimento di queste manifestazioni dell'anima popolare, di cui Alfredo e gli altri cantori sono l'incarnazione, mi è apparso improvvisamente difficilissimo e forse impossibile. Ho cercato, allora, evitando formule preconcette, di rispettare e rispecchiare il più possibile nella scrittura l'umore e il ritmo delle singole esecuzioni con le caratterizzanti simmetrie e asimmetrie, sia negli accenti delle parole che nel rapporto tra le frasi[1].* Per lo stesso motivo ho scelto di non trascrivere tutti i canti in una tonalità unica, forse di più facile lettura e comparazione, ma di renderli così come venivano cantati.
Alfredo vive da tempo fuori dal suo Salento e a me sembra che veda le cose del mondo con gli occhi di chi ha vissuto più di una vita.
In questo, come in altri suoi bellissimi libri dedicati alla sua terra, c'è l'appassionato bisogno di testimoniare qualcosa della ricchezza che ha ricevuto dalla sua gente, di salvare qualche lembo di questo prezioso tessuto filato da generazioni che va inesorabilmente perdendosi.
Gli sono grato per l'invito a questa piccola collaborazione (spero di essere riuscito a fornire almeno una traccia alla fantasia e alla immaginazione del lettore).
Essergli stato vicino nella genesi di questo suo lavoro, mi ha fatto apprezzare ancor più lo spirito, l'ironia, la sottile sofferenza e la bellezza che vivono nel suo ricordare."
 
Roma, maggio 2005

**+****+ *Esempio: Pe' ttie menu li passi, con la prima frase che chiude in modo piano: le sillabe stendu con sten sul battere della misura, e la seconda frase in modo tronco in cui è il du finale di caminandu che cade in battere sulla misura. La terza e la quarta frase poi si comporteranno reciprocamente nello stesso modo. Anche qui sarebbe stato facile portare anche la seconda e quarta frase a terminare in modo piano, ma è proprio questa ineguaglianza a rendere più vivo e interessante il tutto!

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SABATO 3 DICEMBRE ORE 20. SALONE DELL’ORATORIO DI COLLEMETO.
PRESENTAZIONE DEL VOLUME “TRADIZIONI POPOLARI E STORIE DI VITA NEL SALENTO”
[Traccia del discorso]
Stasera sono felice e commosso di stare qui con voi. Sono venuto apposta da lontano per incontrarvi. Sono andato via tanti anni fa come tanti figli di questa terra e torno ogni estate. Quando arrivo qui e vedo i vostri volti, le case e le strade dove scorrazzavo da bambino, quando arrivo qui e sento parlare la stessa lingua che ho imparato dai miei genitori, ho sempre l’impressione di non essere mai andato via. E Civita Castellana, dove abito da 40 anni, è così lontana… lontana. Questo paese è la mia acqua, è il mio respiro, è il mio sentire, è tutto ciò che ho nel profondo, nella mia anima, nel mio cuore.
Ma ogni mancanza, si sa, ha bisogno di essere riempita. E io, negli anni, ho sempre raccolto e messo da parte tutti i modi e le espressioni della nostra tradizione popolare: li cunti, le poesie, le canzoni, gli stornelli, i proverbi, gli indovinelli, i modi di dire, anche le parolacce, specie quelle di mio padre, che erano così colorite.
Vi chiedete perché questo interesse. E’ che quando vivi in un posto in cui non si parla la tua lingua, ecco che ti viene a mancare, ne fai un mito, la rincorri per tutta la vita. Io ormai ho l’abitudine di parlare in italiano, ma non vi nascondo che, quando mi trovo in situazioni in cui devo esprimere gioia, amore, dolore, rabbia, meraviglia, sorpresa, per non dire qualche imprecazione, spontaneamente mi viene di esprimermi in dialetto. Ad esempio, quando inciampo, mi viene spontaneo esclamare “lampu e tronu!!!”. Un’espressione corrispondente in italiano non esiste.
La mia infanzia. Mi piace a volte arrivare di notte a Collemeto, o, d’estate, allo schiaccu (pomeriggio assolato, n.d.a.), quando le strade sono deserte. Improvvisamente mi si apre davanti lo scenario di tanti anni fa, quando a Collemeto eravamo tanti bambini, e vivevamo e giocavamo in mezzo alla strada, e gruppi di gente sostavano fuori, davanti casa, a raccontare storie, a cantare, a suonare. Era un altro mondo, non c‘erano auto, non c’era la televisione. Le
strade non erano asfaltate, sicché, alle nove di sera, quando la corriera che da Lecce tornava a Gallipoli attraversava tutta via Padova (non era asfaltata allora) e sollevava nuvole di polvere, noi bambini, indispettiti, la prendevamo di mira con i nostri sassi.
Era un mondo magico, incantato, che oggi non esiste più e sono contento di far parte di una generazione che l’ha conosciuto quel mondo, perché poi, con l’arrivo del cosiddetto benessere, delle fin troppe auto e della televisione che costringe la gente a starsene chiusa in casa, ognuno per conto suo, quel mondo è scomparso. Certo era un mondo in cui la fame e le malattie non scherzavano, ma c’erano in ogni caso dei valori che erano fondanti per una comunità, valori in cui tutti si riconoscevano: parlo dell’educazione, del rispetto, della solidarietà, del vergognarsi quando venivi sorpreso a commettere una marachella.
Il libro che oggi viene presentato, come quello dei racconti di alcuni anni fa, ecco, vuole essere un tentativo di fermare quel mondo di un tempo in cui c’erano le fate, li nanni orchi, le anime ca te caranfavanu, il buio che faceva paura.
Faccio parte dell’ultima generazione alla quale sono state trasmesse le tradizioni orali, per cui ho sentito il dovere e, insieme il piacere, di scrivere tutto quello che ho appreso dai miei nonni, dai miei genitori, parenti, vicini di casa. E poi, quando si raccoglieva e infilava tabacco per tante ore al giorno, come si poteva ovviare alla fatica e alla noia, se non raccontando e cantando? Sono libri che ho scritto per il gusto di scrivere, certo, ma anche per il mio paese, perché non si dimentichi la bellezza della nostra lingua e delle nostre radici. Non perché il nostro dialetto sia migliore o più bello di altri: tutti i dialetti sono una ricchezza, ma è il nostro, è la nostra identità, la nostra cultura e dobbiamo salvaguardarlo, fare in modo che lo parlino anche i bambini insieme all’italiano. Ci sono parole e modi di dire nella nostra lingua che sono la nostra gioia di esprimerci in suoni e ritmi che sono unici e che nessun progresso ci deve togliere.
Voglio anche dirvi che, se non fossi emigrato, forse non avrei sentito il bisogno di testimoniare, scrivendolo, tutto ciò che mi è stato trasmesso oralmente. Sicuramente sono stato indotto dalla consapevolezza di aver ereditato un patrimonio di inestimabile valore che era parte della mia identità. Sono legato a quel patrimonio come fossi legato a un tesoro nascosto. Ecco, scrivendo il mio libro, è come se avessi disseppellito il mio tesoro per farne partecipi tutti, soprattutto voi di Collemeto, perché possiate ritrovarvi nella ricchezza e nella bellezza della nostra lingua.
Ogni dialetto ha la sua suggestione nei ritmi, nei toni di voce, nei suoni che evoca, come nei gesti che l’accompagnano. Sono convinto che la lingua è lo specchio di una civiltà: ne contiene la storia, la cultura, il pensiero, l’anima insomma.
Il progresso tecnologico sta omologando tutto, anche la lingua. La televisione ci propina ogni giorno lo stesso linguaggio, bello o brutto che sia. Nell’era del consumismo il dialetto non serve perché è un linguaggio di pochi e non è un buon veicolo pubblicitario: non arriva a tutti, non fa vendere. Il dialetto allora, a meno di una rinascita al di fuori dei valori commerciali, è destinato a scomparire e con esso scomparirebbe anche un mondo, una civiltà.
Certo non tutto era bello del nostro passato: c’era poco pane, c’era il “bongiorno a signurìa”, la scuola per pochi eletti, il lavoro non bastava per tutti, l’emigrazione è stata un male necessario…
Non tutto era bello del nostro passato, ma il progresso ha spazzato via anche le cose belle di una volta: parlo di un certo modo di stare insieme, di un sentimento di solidarietà che c’era tra gli esseri umani. Benché poveri, si era più generosi, ci si spartiva l’ultimo tozzo di pane. Non c’era solitudine poi, il paese era una grande famiglia e soprattutto non si moriva da soli.
Il dialetto (ancora), ha parole, espressioni, modi di dire che alle mie orecchie suonano come musica. Ma il dialetto non è solo musica, è anche teatro. Ci sono personaggi qui a Collemeto, che quando parlano e raccontano storie, sono talmente ricchi di gesti e di espressioni, che pare stiano sul palcoscenico, sembrano altrettanti Totò, tale è la loro carica comica.
Dico della comicità. E del tragico? Niente più del dialetto esprime il senso del dolore, dello sconforto, della perdita. Non ci sono mezze misure, l’amore e l’odio sono sempre vissuti e detti con toni forti: grida e parole rotolano come pietre.
Ecco io con questo libro ho speranza di farvi fare un viaggio nelle nostre radici: insieme sulla barca della musica e delle parole. E che questo, oltre a suscitarvi un po’ di sana nostalgia per un mondo che scompare, possa anche farvi divertire un po’.
Grazie per essere stati qui con me.
Alfredo Romano
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PRESENTAZIONE “TRADIZIONI POPOLARI SALENTINE E STORIE DI VITA NEL SALENTO”CIVITA CASTELLANA PALAZZO MONTALTO-BELEI 18 NOVEMBRE 2005
[traccia discorso]
Ho avuto la sorte di nascere in un piccolo paese, Collemeto, una frazione di Galatina, dove non c’era ancora la luce elettrica, un piccolo paradiso terrestre ancora intatto fatto di notti scure, di candele e lampade a petrolio, di giorni chiari e luminosi nella calura implacabile del sole mediterraneo. Ho fatto in tempo a immagazzinare nella mia mente fiumi di nanni orchi, sciacuddhi e acchiature, anime in pena e morti ca te carànfanu, pìzziche e tarantate, ritmi e tamburieddhi, storie tragiche e comiche, zaccarresta e scundarieddhi, truddhi e cavaddhu barone, scisciarìculi e scarabòmbuli, rape creste e zzanguni, fae nette e gnumarieddhi… e lu vinu ca te trase intra ll’osse. Tutto un mondo magico e incantato che mi chiedo a volte se sia veramente esistito. Sono partito che ero un ragazzo e navigo da allora in mille perigli per tornare al paese, la mia Itaca che non c’è più.
Non sono un vero ricercatore sul campo, e se mi è capitato nel corso degli anni di effettuare delle registrazioni, l'unico motivo è stato quello di catturare suoni e parole da portarmi a Civita Castellana, come si fa, da buon emigrante, con l'olio, il pane, le frise, il vino, l'origano, la ricotta schianta, li pampasciuni, le cozze moniceddhe eccetera eccetera. La maggior parte del repertorio folclorico contenuto nel libro è tutto ciò che ho sentito e appuntato negli anni, soprattutto in casa mia. Sicché mia madre Lucia è l’informatrice principale. Lei stessa, sapendomi curioso te li 'ntichi, cioè “antichi”, per dire di fatti e storie del passato, annotava su pezzi di carta, fosse anche quella del macellaio, i suoi proverbi, gli stornelli, le canzoni, le poesie religiose e non, i modi di dire, ecc.
Mio padre Giovannino, invece, non mi annotava niente. Non ce n’era bisogno, però, perché il suo linguaggio era sempre così forte e colorito che certe sue espressioni o modi di dire o imprecazioni, mi sono rimasti dentro e fanno parte ormai del mio bagaglio espressivo. Seguono i miei nonni materni che in testa conservavano libri interi di tradizioni orali.
Qui a Civita Castellana, dove la mia famiglia emigrò negli anni ‘60 per la coltivazione del tabacco, abitavamo in uno dei tanti caseggiati, in località Terrano, che dividevamo con altre famiglie di Collemeto. Si era un po’ tutti parenti, si raccoglieva e si infilzava tabacco insieme nei grandi capannoni. Alle quattro del mattino si era già sul campo, alle 10 si cominciava a infilzare fino alle 18, quando si tornava alla seconda raccolta fino all’avanzare del buio. Sicché, ore e ore a raccogliere tabacco e a infilzare, con la schiena curva e il tedio di gesti ripetitivi, non potevano non stimolare il bisogno di raccontare, di cantare: così veniva fuori tutto il vasto patrimonio di storie, racconti, canti popolari dei miei genitori, ma anche fatti di paese, per non dire le storie dei dieci anni di guerra di mio padre, compresa quella d’Africa.
Voglio anche dirvi che, se non fossi emigrato, forse non avrei sentito il bisogno di testimoniare, scrivendolo, tutto ciò che mi è stato trasmesso oralmente. Sicuramente sono stato indotto dalla consapevolezza di aver ereditato un patrimonio di inestimabile valore culturale che era parte della mia identità. Sono legato a quel patrimonio come fossi legato a un tesoro nascosto. Ecco, scrivendo il mio libro, è come se avessi disseppellito il mio tesoro per farne partecipi tutti, sia quelli del mio paese perché non dimenticassero, sia i tanti salentini di Civita Castellana perché si ritrovassero nella ricchezza e nella bellezza della loro lingua, ma anche i civitonici, perché scoprissero di essere vissuti accanto e uomini e donne, i leccesi appunto, che conservavano, non solo nei tratti fisici e nei gesti, ma anche nell’anima, i segni di una cultura che veniva da lontano, una cultura che ha le sue radici in quella greca, e che le vicende della vita e dell’emigrazione non hanno cancellato.
Voglio spezzare una lancia in favore del mio dialetto, ma anche di tutti i dialetti in generale. Ogni dialetto ha la sua suggestione nei ritmi, nei toni di voce, nei suoni che evoca, come nei gesti che l’accompagnano. Sono convinto che la lingua è lo specchio di una civiltà: ne contiene la storia, la cultura, il pensiero, l’anima insomma.
Il progresso tecnologico sta omologando tutto, anche la lingua. La televisione ci propina a tutti lo stesso linguaggio, bello o brutto che sia. Nell’era del consumismo il dialetto non serve perché è un linguaggio di pochi e non è un buon veicolo pubblicitario: non arriva a tutti, non fa vendere. Il dialetto allora, a meno di una rinascita al di fuori dei valori commerciali, è destinato a scomparire e con esso scomparirebbe anche un mondo, una civiltà.
Certo non tutto era bello del nostro passato: c’era poco pane, c’era il “bongiorno a signurìa”, la scuola per pochi eletti, il lavoro non bastava per tutti. L’emigrazione è stata un male necessario.
Non tutto era bello del nostro passato... ma il progresso ha spazzato via anche le cose belle di una volta: parlo di un certo modo di stare insieme, di un sentimento di solidarietà che c’era tra gli esseri umani. Benché poveri, si era più generosi, ci si spartiva l’ultimo tozzo di pane. Non c’era solitudine poi, il paese era una grande famiglia e soprattutto non si moriva da soli. Oggi s’incontra magari l’inquilino del piano di sopra e non gli si rivolge neanche un saluto.
Il dialetto (ancora), ha parole, espressioni, modi di dire che alle mie orecchie suonano come musica. Ma il dialetto non è solo musica: è anche teatro. Quando torno al mio paese provo una certa emozione a risentire la lingua della mia infanzia: è quasi tornare nel ventre di mia madre se volete.
Ci sono personaggi che quando parlano e raccontano storie, sono talmente ricchi di gesti e di espressioni, che pare stiano sul palcoscenico, sono altrettanti Totò, tale è la loro carica comica.
Dico della comicità. E del tragico? Niente più del dialetto esprime il senso del dolore, dello sconforto, della perdita. Non ci sono mezze misure, l’amore e l’odio sono sempre vissuti e detti con toni forti: grida e parole rotolano come pietre.
Ecco io con questo libro ho speranza di farvi fare un viaggio nelle mie radici: insieme sulla barca della musica e delle parole. E che questo, oltre a suscitarvi un po’ di sana nostalgia per un mondo che scompare, possa anche farvi divertire un po’.
Alfredo Romano
Civita Castellana, 17 nov. 2005

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Questa è la traccia del discorso che mi ero preparato da tenere a Neviano, in prov. di Lecce, il 22 dicembre 2006 per la presentazione del mio “Tradizioni popolari e storie di vite nel Salento”. Purtroppo qualche giorno prima mi ammalai e tutto andò a monte. Tra l'altro, dopo la presentazione, avrei dovuto tenere anche un concerto di canti popolari.
"Voglio dirvi che è davvero un’emozione grande trovarmi qui a Neviano stasera. Sono nel paese di mia madre, che si chiamava Lucia Giustizieri (se n’è andata 12 anni fa); sono nel paese dei miei nonni Pasquale Giustizieri e Maria Neve De Blasi. I miei nonni, a loro volta, mi parlavano sempre dei loro genitori (i miei bisnonni quindi) e non ho dimenticato i loro nomi: e ve li cito, perché, almeno i cognomi, vi saranno familiari: Berardino Giustizieri, sposato a Sofia Pasqua, e Giovanni De Blasi, sposato ad Aurora Pinzi. Se mio nonno era nato nel 1887 e mia nonna nel 1889, devo credere che i mei bisnonni siano nati a metà dell’Ottocento.
Senza i miei nonni materni, la mia infanzia non sarebbe stata così magica (con quelli paterni non ho avuto contatti: la nonna morì prima che io nascessi, il nonno quando avevo 5 anni). La parola Neviano poi è risuonata sempre alle mie orecchie fin da bambino, per non dire che i nonni parlavano esclusivamente nel dialetto di Neviano, paese di cui se ne facevano sempre vanto, anche mia madre, visto che erano finiti a vivere in quel povero e piccolo paese, per giunta una frazione, che si chiamava Collemeto. Un vanto che delle volte mio padre non sopportava, tanto che, a mia madre che lo stuzzicava, spesso rispondeva per le rime con un: Statte citta tie ca si’ nnata su quiddhi cozzi te Nevianu! C’è da dire che mio nonno si gloriava spesso di un suo antenato che era stato il costruttore della chiesa della Madonna della Neve.
Ma com’erano finiti a Collemeto i miei nonni? Dovete sapere che mio nonno era un macellaio affermato qui a Neviano. Aveva casa e una macelleria in via Roma, di fronte a un’edicola della Madonna della Neve che non so se oggi c’è ancora.
Andava bene la macelleria, ma evidentemente a lui non bastava, dal momento che investì tutti i suoi risparmi in un carico di asini calabresi. Si recò personalmente in Calabria per trattare l'affare. Gli asini, però, stipati nei vagoni merci, forse perché non erano tutti dello stesso allevamento, presero a sferrarsi calci e a morsicarsi tra di loro. Alla stazione d'arrivo, aperti i vagoni, si presento uno spettacolo impressionante: quasi tutti gli asini erano morti dissanguati. Così l'affare andò a monte e mio nonno si ridusse sul lastrico. Ma aveva sette figli (altri quattro gli erano morti di spagnola durante la Prima Guerra) e non si perse d'animo. Si trasferì con la famiglia a Monteparano, nei pressi di Taranto, per coltivare tabacco. Ma anche qui le cose non andarono bene e cercò un posto più favorevole per la coltivazione. Finì a Collemeto: gli dissero che a Collemeto c'era terra buona e si rifugiò in una masseria in località Molinari.
Mia madre mi raccontava sempre che quando partirono da Neviano per Monteparano era il 13 dicembre del 1925, il giorno di santa Lucia, il suo onomastico. Frequentava la prima elementare, e dovette lasciare. Da quel giorno non andò più a scuola, tragedia che sarebbe ritornata spesso nel suo raccontarmi. Molto più tardi però, imparò a leggere e a scrivere da sola. Lo fece per amore, per rispondere alle lettere che mio padre gli mandava dal fronte di guerra a Ventimiglia.
I nonni, a Collemeto, abitavano a pochi metri da casa mia, sicché i miei contatti con loro erano giornalieri, tanto più che mia madre spesso mi mandava dalla nonna per farmi dare lu ntartieni, ntartieni che non mi dava mai naturalmente, visto che si prodigava a trastullarmi con le sue lunghe storie, filastrocche e racconti popolari che conosceva a iosa. Mio nonno, poi, si recava ogni anno per 15 giorni a Rimini, e io, il più grande di 4 fratellini, andavo gioiosamente a far compagnia a mia nonna che la sera mi addormentava con le sue storie accompagnandosi con gesti e toni di voce tali che avrebbero impressionato gli spettatori di un intero teatro.
Ma anche il nonno non era da meno, specie cu lli culacchi te Papa Cajazzu. Mio nonno però era solito raccontarci sempre una storia vera, una storia per ridere che una volta gli capitò proprio in via Roma dove aveva casa e macelleria. Diceva che di fronte a casa sua c’era un palazzo di signori. Voi sapete che la domenica c’era la messa prima per la gente comune e quella seconda, detta dei signori. Bene, mio nonno, era di domenica mattina un po’ sul tardi,, stava uscendo di casa, quando, sul balcone del palazzo davanti, un palazzo di signori, stava affacciata una certa donna Rosina. Questa, notando mio nonno uscire, lo chiamò:
“Pascalinu! Pascalinu!”
“C’è ggh’ete, donna Rusina!” pronto mio nonno.
“Sai gnenzi ci è bessuta la messa te le villane?” chiese donna Rosina.
“Sì!, e mo’ sta ccumincia quiddha te le bbuttane!”
I fatti narratimi dai miei nonni sono finiti in un libro edito sei anni fa dalla Besa editrice di Nardò, dal titolo Lu Nanni Orcu e altri racconti salentini. Il libro forse è esaurito, ma occorrerà ristamparne una nuova edizione almeno per voi di Neviano, perché si tratta di racconti che provengono quasi tutti dalla tradizione popolare di questo paese e che qui forse si sono perduti. Almeno personalmente non ho trovato traccia nelle pubblicazioni salentine di folclore.
Ma oggi parliamo di un altro libro, quello per il quale voi tutti siete venuti qui. Bene, c’è un repertorio di poesie che mi ha trasmesso mia madre che proviene tutto da Neviano. C’è una poesia che lei recitava sempre nei matrimoni dove era invitata (cosa che veramente faccio anch’io), e ci sono poesie religiose, sempre popolari, alcune delle quali, per la loro umanità, mi commuovono sempre quando le rileggo.
Anche molti proverbi che sono scritti su questo libro provengono da Neviano, come alcune canzoni, certi modi di dire, filastrocche, formule, tiritere…
Insomma (l’ho scritto anche nel sottotitolo) questo libro, come quello dei racconti, appartiene anche a Neviano. C’è una legge nella trasmissione orale, ed è quella che chi emigra conserva le tradizioni popolari più di chi resta al paese. Le tradizioni orali come i costumi, la lingua, per non dire la cucina. Sicchè, credo che, proprio perché i miei nonni e mia madre furono costretti ad andar via da Neviano, proprio per questo ebbero premura di conservare un patrimonio di tradizioni orali che facevano parte della loro cultura, e quindi della loro identità. Un patrimonio che li distingueva dagli altri abitanti di Collemeto, un patrimonio che leniva la tragedia del distacco da Neviano. E loro si vantavano di essere di Neviano, un vanto che si poteva perdonare, dal momento che, dacché mondo è mondo, ogni essere umano sta sempre lì a chiedersi: chi sono, da dove vengo. Chi ha delle radici si dà in qualche modo una risposta a queste domande, perché sa di appartenere a una famiglia, a un paese, a un territorio, a una lingua, a una cultura del vivere e del pensare. Senza questa appartenenza, ognuno di noi si sentirebbe smarrito. Fra le tante radici, il dialetto è tra quelle che più ci caratterizzano. I suoni e le parole che abbiamo ascoltato fin dai primi vagiti restano impressi nel nostro essere in modo indelebile, sicché possiamo imparare tutte le lingue del mondo, ma quando ci troviamo di fronte a un’emozione, un moto improvviso dell’animo, un dolore, una gioia, una sorpresa, un inciampo… ci viene sempre di esprimerci col dialetto (che è la nostra lingua madre) più che con l’italiano che abbiamo appreso a scuola.
Io, con questo libro, ho voluto mettere nero su bianco tutto quel che ricordavo della tradizione orale che mi è stata trasmessa. Per dirvi che il libro non nasce da una ricerca sul campo come fanno gli studiosi di folclore, ma da un bisogno di trasmettere, a mia volta, il mio piccolo patrimonio di fatti, poesie, canzoni, proverbi, modi di dire, eccetera, che ho ascoltato specie negli anni, tanti anni, in cui si stava seduti per tante lunghissime ore a raccogliere e infilare tabacco.
E tanto per dirvi della lingua straordinaria che è il nostro dialetto, voglio finire con mia madre, con una dichiarazione d’amore che un giorno, mi raccontava, le fece un suo pretendente quand’era ragazza.
Cia mia beddha, iu sta mmoru pe’ ttie. Ci tie me dici sine, quandu te sposu iu te tegnu intru ccasa comu ‘nu mazzu te fiuri: ca la mujere mia nu’ hae scire ffatica, lassa ca bbuttu lu sangu iu, ca sacciu cu zzappu e puru cu putu e la sciurnateddha esse sempre. E qualche cozza moniceddha, quarche cicora, quarche mendula, quarche fica nu’ tt’hae mmancare. E puru quarche zzippu pe’ ‘nna pignata te pasuli ca a mmie me piàcianu tantu. Timme sine, Cia mia beddha, ca, ci tie me sposi, te tegnu intru ccasa comu ‘na Matonna!”
Ecco, forse sarà una dichiarazione che oggi farà ridere un po’. A me, però, fa tanta tenerezza, e non credo che in italiano avrebbe la stessa efficacia.
Alfredo Romano
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