sabato 12 gennaio 2008

MIEI INTERVENTI E RECENSIONI PER LIBRI E MOSTRE

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L'UNIVERSO FEMMINILE NELLE OPERE DI ANNA DEMYTTENAERE

(In occasione della mostra d'arte tenuta da Anna a Roma presso l'Ambasciata belga)

Un ramo di verdi ulive pende carico sulla terrazza di Anna Demyttenaere in quel di Calcata, un antico borgo del Viterbese arroccato su di una rupe tufacea.
E' il simbolo più mediterraneo di quell'Italia che da anni rappresenta il "bel viaggio" di Anna, quell'Italia che con tutte le sue contraddizioni si fa spesso odiare ma anche segretamente amare, quasi donna fatale.
Sarà perchè viene da un plat pays, il Belgio di Jacques Brel, paese troppo rassicurante forse, che Anna ha voluto inseguire l'ingannevole ma libero canto delle sirene, piuttosto che il tedio della "quieta" borghesia.
Sirena essa stessa, prigioniera di armoniose fattezze nordiche da tela fiamminga, non le è stato facile rincorrere forme di comunicazione che rivelassero al tempo stesso un corrispettivo interiore.
Lo ha fatto e lo fa nella pittura, associando simultaneamente, sulle orme di Paul Klee, il razionale all'irrazionale, il conscio all'inconscio. I suoi dipinti, sotto un'apparente ingenuità, celano in realtà un giudizio sulla condizione umana, rappresentano le brutture di un mondo "progredito" sullo sfondo di colori a volte infernali, altre volte tenui e rasserenanti, ad indicare speranze e sogni che possono avverarsi.
Lo rivelano alcuni quadri il cui soggetto è esplicitamente VIA CRUCIS. Altro non sono quelle automobili incolonnate come processionarie nell'inferno urbano, testimoni dell'assurdità di un tributo che l'uomo paga a una civiltà che è civiltà disumana.
Ma questo è potuto accadere anche perché la macchina è venuta a simboleggiare per l'uomo il prolungamento della propria virilità. Non per niente le automobili di Anna sono sormontate da un unicorno, quasi a dotarle di una caratteristica maschile, con l'abitacolo che diventa un utero, perché si muove, è chiuso. Siamo al maschio come aggressività, negazione del sogno, del bello.
Quando agli albori dell'umanità l'uomo smise di essere nomade, prese a recintare le femmine degli animali per controllarne la prolificità. Fu così che il caprone divenne il dio-caprone. Questo spiega, secondo Anna, perchè poi anche le donne subirono la stessa sorte, relegate in casa e a far figli ai voleri dell'uomo.
Eppure era considerato un corpo magico prima quello della donna. Il suo pancione simboleggiava il grande valore della nascita e della vita che si portava dentro. Poi donne e bambini, come parti deboli della società, furono confinati in ruoli secondari. Alla nuova religione del maschio si opposero le Amazzoni: l'inizio di quella resistenza femminile che dura da secoli.
Il discorso cade su di un altro soggetto caro ad Anna: l'erotismo. Sono figure dai colori vivaci ritagliate su fibre di legno che riescono a stare in piedi grazie a un gioco di incastri che danno un'illusione scultorea. E' un susseguirsi di amplessi, ma non da manuale, dove l'amore è visto invece come un gioco, come gioia, come tenerezza. Non c'è spazio per masochismi o sadismi vari, ma neppure a quella routine quotidiana che spegne il rapporto d'amore. Anche qui la donna, per Anna, gioca un ruolo positivo. Infatti mentre nella donna il desiderio sessuale è provocato soprattutto da un'assenza di subordinazione all'uomo (un erotismo legato alla parità quindi), nell'uomo invece è scatenato troppo spesso dal corpo nudo della donna scambiato per un oggetto.
E' un universo al femminile insomma che non smette di estendersi ai quadri dell'ULTIMA CENA. Qui il sacrificio di Cristo ha la sua apologia nel tradimento dei discepoli che non mancano nel rituale di bere il sangue del loro Dio. E' un sacrificio che è espressione di un mondo violento da cui non può scaturire la "Redenzione", e non è un caso che i protagonisti di questo rito siano maschi.
E non poteva non suscitare emozioni in Anna il gioco del Badminton, una novità delle Olimpiadi del 1992. Qui graziose e snelle fanciulle sembrano disegnare un intreccio di traiettorie fino a comporne un ricamo geometrico. E' un omaggio a un gioco di donne, un inno al volo, alla danza, alla gioia, alla femminilità quindi.
E non mi stupisce che Anna si sia divertita anche con Coppa America '92 (dipingere, ammette, è divertirsi prima di tutto), per quell'amore che Anna nasconde per il mare. Nei colori celeste-azzurro bleu che dipingono il mare, si frastagliano geometrici cristalli in mezzo ai quali scivolano, come viste dall'alto, le due barche di Coppa America. Sono come amanti solitarie che gareggiano a rincorrersi tra i flutti e senza di loro vano sarebbe il vento che le fa danzare o l'aria che accarezzano fragorosa e il sole che ne prolunga i riflessi sull'acqua, la vita che rincorrono e che vincono senza il fragore delle armi.

Alfredo Romano - 1993

Desiderosa di un testo che parlasse
della mia opera e di me in quanto essenza di essa.
Desiderosa di un testo non gergale fatto
da qualcuno che mi conoscesse da tempo e che
mi volesse bene.
Ho chiesto ad uno scrittore di fare la
presentazione dei miei ultimi lavori.
E' la prima volta che Alfredo Romano
scrive sull'opera d'arte.

Anna Demyttenaere

Anna Demyttenaere è nata a Renaix, in Belgio, dove a tirare l'aratro erano giganteschi cavalli brabançons.
Studi classici in Belgio e in Inghilterra. Comincia molto presto la sua scuola d'arte frequentando studi di artisti di fama consolidata.
A Bruxelles: Aubin Pasque (surrealista), Marcel Astyr (l'ultimo impressionista), Jo Delahaut (astratto) e Joan Marti.
A Madrid: Justo Barbosa e Anabel Martinez.
A Roma: Mario Schifano, Nicolas Carone, Elio Costanza, Emanuel Herzl, etc.
A Calcata: Costantino Morosin.
Negli anni 70, tra Roma e Calcata, produce opere che vengono acquistate da collezionisti tra i quali: Roberto Rossellini, Mario Lanfranchi e Lucio Mariani,
Nel 1979 torna a Bruxelles dove scrive una sceneggiatura finanziata dal Ministero della Cultura Belga.
Nel 1983 nasce suo figlio Jonas.
A Calcata nel 1985 riprende l'attività artistica realizzando maschere di cuoio e dedicandosi poi esclusivamente alla pittura.Il suo lavoro è attualmente seguito da Achille Bonito Oliva a Roma e dalla Galleria Isybrachot a Bruxelles.

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Sala conferenze Biblioteca Comunale di Civita Castellana. Intervento alla presentazione del libro di Gianluca Cerri e Paola Rossi "La Via Amerina e il suo paesaggio", edito dalla Biblioteca

Dico subito che è la prima volta che intervengo alla presentazione dei libri editi dalla biblioteca. Giunti al quinto volume della collana Ninfeo Rosa, colgo l'occasione per fare il punto sull'attività editoriale e tentare di tracciarne qualche linea programmatica.
Della collana sono il responsabile, ne curo le bozze, l'impaginazione, la grafica. Alla
I volumi sono tutti forniti di ISBN, che è quel numero che identifica il libro in tutto il mondo. Il libro così finisce su tutti i cataloghi nazionali e internazionali e naturalmente anche nelle librerie virtuali di Internet: l'italiana Internet Book Schop, ricca di 300 mila volumi, e l'americana Amazon.com con un milione e mezzo di titoli. I nostri volumi si possono rintracciare digitando il nome dell'autore, oppure della collana o dell'argomento, o anche della casa editrice che, nel nostro caso, è Civita Castellana.
Questo spiega perché i nostri libri, per gli argomenti che trattano, sono richiesti in Italia e nel mondo. Ci sono piovute ordinazioni non solo da privati ma anche da università italiane e straniere.
Un libro all'anno non è molto per una casa editrice (e già perché la biblioteca sta sul catalogo degli editori), ma è tanto per una biblioteca che deve gestire un patrimonio con più di 20 mila volumi, centinaia di periodici, tanti libri in arrivo, tanti altri che ci vengono donati (perfino da Goteborg in Svezia), il lavoro di informatizzazione, l'archivio, i rapporti col pubblico e con le scuole, l'amministrazione, la gestione della sala delle conferenze e via discorrendo.
Ma sia pure un volume all'anno, col tempo stiamo portando alla luce temi e argomenti che arricchiscono il patrimonio culturale di questa città. Perché oltre a trattazioni di argomento attuale, come il libro sulla ceramica, frutto di ricerche del Cnr, sono stati affrontati anche temi della nostra storia, della lingua e delle tradizioni popolari, e, ultimo, della via Amerina e il suo paesaggio.
La nostra responsabilità sta via via crescendo, perché, dopo aver sfornato libri tutti di un certo interesse, e in una veste presentabile, non possiamo più tirarci indietro, anzi c'è solo da migliorare. Siamo convinti che questo modo di lavorare con silenzio, pazienza e costanza, non darà riscontri immediati, ma li produrrà nel tempo. Sappiamo che il nostro lavoro resterà, e saranno soprattutto le generazioni a venire a trarne giovamento e a doverci ringraziare. Una comunità che si rispetti deve avere gli strumenti per sapere chi è e da dove viene, e i libri sono come uno scrigno che conserva l'identità di un popolo, sono l'eredità del sapere e della vita degli uomini che ci hanno preceduto, attraverso di loro possiamo prendere coscienza del nostro posto nel mondo.
Premesso che pubblicare più di un libro all'anno costituisce per noi un'impresa, voglio qui spezzare una lancia per alcuni volumi che da anni attendono di tornare alla luce. Sono opere che costituiscono le tracce della memoria storica di Civita Castellana, sono opere antiche, dimenticate. La biblioteca in questi anni si sta occupando della loro trascrizione in videoscrittura: si tratta di testi manoscritti di non facile lettura a volte. Se finora non sono stati pubblicati è perché essi hanno bisogno, per questo, di un adeguato apparato critico di note e commenti, senza i quali non potrebbe esserci una corretta comprensione.
Per fare in modo che i manoscritti escano da questa specie di limbo, è necessario ricorrere a degli esperti che li prendano in esame, li interpretino, li sappiano collocare nell'arco del loro tempo, nel loro contesto storico, economico, sociale, religioso. A Civita non mancano studiosi a cui affidare incarichi di questo tipo, non escludendo neppure un compenso.
D'altronde, se si paga un architetto per il progetto di una scuola, perché non fare altrettanto con uno studioso per il progetto di un libro? Siamo ancora al Litterae non dant panem? Oppure alla stupida divisione tra sapere scientifico e letterario, quando invece l'uno e l'altro sono due facce della stessa medaglia che è l'uomo?
I libri di cui vi parlo sono quattro.
Il primo è lo statuto di Civita Castellana, un'opera che costituisce un pilastro per la nostra storia. Fu compilato tra il 1471 e il 1484, approvato nel 1535, dato alle stampe nel 1566.
La copia integrale si trova nell'Archivio di stato a Roma; la nostra è priva di alcune pagine iniziali, di cui però abbiamo la versione in fotocopia, il resto è stato restaurato.
Poi c'è la storia di Civita Castellana del Pechinoli, scritta nel 500, di cui abbiamo la copia filmata. In realtà la sua trascrizione è già uscita per le edizioni dell'Ager Faliscus per la cura di don Giacomo Pulcini. Ritengo tuttavia che farne uscire una seconda per la collana Ninfeo Rosa della biblioteca, dotata di ISBN, con una impaginazione e una grafica secondo criteri editoriali più idonei, renderebbe per lo meno più visibile la storia del Pechinoli. Naturalmente si può partire dalla versione di don Pulcini, creando un'edizione riveduta e ampliata. Per questo si possono coinvolgere gli stessi esperti che vi hanno collaborato: penso alla prof.ssa Patrizia Fantera per esempio. Ben vengano, naturalmente altri contributi e collaborazioni.
Il terzo libro è del canonico Sante Pasquetti di cui conserviamo la storia di Civita Castellana, scritta nel 1841. Siamo entrati in possesso del manoscritto alcuni anni fa, faceva parte di un ex libris: ce l'hanno fatto pagare pure caro, ma credo sia valsa la pena. Di Sante Pasquetti abbiamo già sentito parlare nel libro di Giovanna Craba, il primo della collana Ninfeo Rosa. Era un prete con una storia molto singolare che, dopo tante traversie, alla fine della sua vita si mise a scrivere la storia di Civita Castellana. Alcuni sostengono che abbia scopiazzato qua e là. In ogni modo, scritto com'è in un'epoca così antica, non può che costituire un documento.
Ultimo, Oronte Del Frate, del quale abbiamo la copia del manoscritto. Anche qui c'è una storia di Civita Castellana scritta qualche secolo fa, che da tampo costituisce uno spunto per tante ricerche, anche qui in biblioteca. Come gli altri libri sopra, non si può stampare senza corredarlo di qualche nota.
Da alcuni anni a questa parte c'è un fiorire di studiosi che conducono ricerche e studi su Civita Castellana: alcuni sono nostri concittadini, altri vengono da fuori, soprattutto studenti per le loro tesi di laurea. A Civita Castellana due sono gli studiosi che, più di tutti, almeno da trent'anni a questa parte, sono stati il vanto di questo paese con le loro appassionate e a volte contrastanti ricerche. Parlo di don Giacomo Pulcini, che ci ha lasciato, e del prof. Cimarra.
Del primo, credo che prima o poi bisognerà organizzare una conferenza per ricordarlo e mettere in luce la sua giusta figura (Credo che l'Assessore Parroccini abbia già in mente qualcosa del genere); del secondo voglio ricordare che da anni si sta prodigando per dar luce, con pazienza e umiltà, pietra su pietra, al repertorio folklorico, vale a dire alle tradizioni popolari di Civita Castellana.
Cimarra è uno studioso che dovremmo coccolare, visto che in tutto il Viterbese ce lo invidiano: non c'è paese che non lo chiami per una collaborazione o per la presentazione di un libro. I suoi studi, non lo dico solo io, non solo sono di grande rigore scientifico, ma si accompagnano anche a grande passione e onestà intellettuale.
Del prof. Cimarra, questa biblioteca ha pubblicato il repertorio infantile civitonico, che tanto successo sta avendo anche fuori dalle mura cittadine.
Da tempo sta lavorando anche al repertorio folklorico adulto e al vocabolario civitonico. Quest'ultima, un'opera che si annuncia monumentale.
Al momento ha scritto, insieme col prof. Francesco Petroselli dell'Università di Goteborg in Svezia, il repertorio dei proverbi viterbesi, circa 5 mila, dei quali 2 mila sono civitonici. Anche questa è un'opera monumentale, ricchissima di note e commenti, frutto di anni e anni di ricerche. Il manoscritto è bell'è pronto.
Ritengo che la pubblicazione dei proverbi porterebbe lustro e giovamento a questa città e all'Amministrazione comunale che, da un'operazione culturale di questo genere, non avrebbe che da trarne vanto. Io me lo auguro di tutto cuore! tipografia si fornisce un prodotto editoriale già definito, in pratica una copia esatta del libro con relativo dischetto. Ciò ci permette una linea editoriale uniforme e confezionata secondo criteri personalizzati, e nello stesso tempo conformi a precisi standard internazionali.

Alfredo Romano

Civita Castellana 10/01/2000

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INTERVENTO SU DOMENICO MAZZOCCHI

BIBLIOTECA COMUNALE DI CIVITA CASTELLANA

SALA CONFERENZE

7/12/1993


Io mi sono già occupato di Domenico Mazzocchi otto anni fa sulle pagine dell'Informatore Civitonico. Il 1985 era l'anno europeo della musica e credetti doveroso rendere omaggio a un musicista a torto dimenticato, e dimenticato, haimé, anche nel suo paese natale. Ma si sa, il Nemo propheta in patria vale per tutti e vale quindi anche per Domenico Mazzocchi.

Mi sono imbattuto poi in Domenico Mazzocchi non tanto a Civita Castellana (non esiste qui nessuna traccia pubblica, né una lapide né una via; ci sono invece per il fratello Virgilio anche lui musicista) mi sono imbattuto, dicevo, in Mazzocchi negli studi sull'opera lirica attraverso la consultazione di un documento tedesco.

Per questo son dovuto ricorrere a un mio cugino emigrato in Germania (il poveretto studiava tedesco tra un mattone e l'altro), per farmi tradurre brani di un numero speciale di un periodico interamente dedicato a Domenico Mazzocchi.

Si tratta di Anaclecta musicologica pubblicato dall'Istituto Germanico di Roma nel 1970, gentilmente donato a questa Biblioteca Comunale dall'allora vescovo Roberto Massimiliani.

Credo che la storia della musica debba molto a Domenico Mazzocchi.

Grazie a lui il melodramma nel '600 subisce una svolta fondamentale, e se noi oggi possiamo godere lo spettacolo di una Traviata di Verdi o di una Tosca di Puccini o di una Cavalleria Rusticana di Mascagni, è perché un certo Domenico Mazzocchi, un bel giorno si alzò e disse: basta col tedio del recitativo!

Che intendeva dire il nostro con ciò. Torniamo un po' indietro.

Dovete sapere che nei primi del '600 Domenico Mazzocchi fu uno dei principali artefici della Scuola Romana

In Italia allora si chiamavano Scuole i grandi centri di produzione operistica. Ce n'erano a Firenze, a Mantova e soprattutto a Venezia che si si contendeva il primato con Roma.

L'opera. Quando oggi si dice l'opera non si intende né uno scritto né un qualsiasi prodotto artistico o artigianale. Quando si dice l'opera si intende l'opera per eccellenza e cioè l'opera lirica detta anche melodramma dal greco melos canto e drama azione, quindi significa muoversi sulla scena cantando.

Infatti si dice : andiamo all'opera, oppure oggi in televisione danno l'opera, intendendo con ciò soltanto l'opera lirica.

Ma perchè si chiama opera? Si chiama opera perché deriva esattamente dall'opera teatrale, qui i personaggi si muovono sulla scena parlando, parlando e basta, senza cantare. E' così un'opera di Pirandello o di Goldoni e così via.

Ad un certo punto della nostra storia però, siamo nel '500, i personaggi sulla scena di alcuni teatri invece di parlare, come comunemente si faceva, cominciano a dialogare cantando, ma non proprio un canto, qualcosa di mezzo tra il parlato e il cantato detto recitativo.

Nasceva così il recitar cantando.

Possiamo fare un esempio di questo recitar cantando immaginando un testo di teatro in cui ci sia questa specie di dialogo tra me e l'Assessore Ciarrocchi:

- Assessore che sei venuto a fare in questa biblioteca - E lui:

- Son qui perché voglio parlare di Mazzocchi

- Mazzocchi, ma che dici mai, è persona che non conosco - e lui:

- Sei l'unico a non saper di siffatto civitonico.

Ma che bisogno, direte voi, c'era di di trasformare in questo modo il testo di un teatro? Tra l'altro non è verosimile, insomma è come se nei nostri dialoghi quotidiani noi ci mettessimo a usare questa specie di canto-cantilena. Ci sarebbe da ridere.

Ma c'era una ragione per cui nel '500 si andò ad affermare il recitar cantando. Siamo in un periodo in cui grazie al Rinascimento si andava espandendo in tutte le arti un amore e quindi un ritorno al mondo classico.

Sicché anche in teatro entravano sulla scena soggetti mitologici popolati di dei e di eroi dell'antica Grecia e dell'antica Roma.

E allora, ci si chiedeva, potevano gli dei o gli eroi parlare come gli uomini? No, non si poteva immaginare che gli dei e gli eroi antichi parlassero come gli uomini, come gli uomini del '500, sarebbe stato come togliere loro quell'alone di leggenda che li circondava, sarebbe stato come smitizzarli.

Niente di meglio allora che farli esprimere in un linguaggio tra il parlato e il cantato.

Ma badate bene, questo far cantare i personaggi non è un vezzo, diventa una vera e propria esigenza.

Prendiamo L'Orfeo di Monteverdi, (Orfeo, quello di Euridice) laddove Orfeo ha il compito di scacciare le potenze infernali.

Ecco qui il canto non è solo un bisogno espressivo ma anche il mezzo più efficace al raggiungimento di tale scopo

Nei miei ricordi di chierichietto ricordo il parroco che per invogliarci a cantare ci ripeteva che chi canta prega due volte.

Evidentemente anche il Signore Iddio si lascia più facilmente commuovere da uno che canta piuttosto che da uno che parla, comunque nell'accezione comune il "pregar cantando" è più efficace del "pregar parlando" e il mio parroco, don Salvatore, aveva ragione.

Sicché per tanto tempo in tutta Italia, soprattutto a Firenze con la Camerata dei Bardi, assistiamo ad un'esplosione di rappresentazioni teatrali dove dei ed eroi si muovono disinvoltamente sulla scena cantando.

Questo fino al '600, fino a quando un certo Domenico Mazzocchi di Civita Castellana, comincia ad avere a noia queste specie di opere e parla di "tedio del recitativo".

Mazzocchi aveva proprio ragione. Immaginate voi di assistere ad uno spettacolo di due ore con quel fare cantilenoso che vi ho appena fatto sentire. Beh, dopo un po' si passerebbe ai bruscolini. E poi non è solo un fatto di noia, c'era anche l'esigenza di introdurre nell'opera lirica scene che non fossero solo tragiche, come era pacifico per soggetti mitologici, ma scene pur tragicomiche; c'era ancora il bisogno di forme musicali più composite, più ricche di abbellimenti, bisogni ed esigenze che poi erano avvertiti non solo nella musica ma anche in tutte le altre arti, non dimentichiamo che siamo nell'età barocca.

E che cosa propone Mazzocchi per rompere questo tedio del recitativo? Lui dice: perché non introduciamo delle arie nell'opera lirica?

Si tratta di spezzare ogni tanto il recitativo con delle canzoni. Si tratta di far fermar ogni tanto l'azione scenica, uscire fuori dal tempo, dal luogo e anche dalla stessa azione per un momento di pausa, una pausa lirica, di poesia, che fosse bella, ariosa come può essere una canzone.

Ecco, Domenico Mazzocchi fu il primo musicista nella storia della musica che compose un'opera, La Catena d'Adone, in uno schema fisso nel quale delle arie, inframezzate nel recitativo rompono proprio quel tedio di cui lui stesso parlava.

E questa invenzione del Mazzocchi non poteva che prendere subito piede, a tal punto che col tempo le arie presero il sopravvento sul recitativo divenendo sempre più numerose.

E noi oggi quando cantiamo brani di un'opera, quando li fischiettiamo
per la strada o mentre ci radiamo la barba, non facciamo che cantare proprio
le arie delle opere.

E' un'aria Di quella Pira nel Trovatore di Verdi, E' un'aria l'Addio del passato della Traviata oppure Là ci darem la mano nel Don Giovanni di Mozart, o Casta Diva Norma di Bellini, Lucean le stelle nella Tosca di Puccini. E non è un momento lirico anche il Va pensiero sull'ali dorate nel Nabucco di Verdi? nella

Attenzione però: l'aria, può essere bella quanto vi pare, ma non lo sarebbe senza quel recitativo che abbiamo definito un po' noioso, quel recitativo che poi è l'azione, lo svolgimento dell'opera. Perché, direte voi?

E' semplice: immaginate di avere un'opera fatta di sole arie, senza il recitativo, cioè senza l'azione. Ebbene sono sicuro che l'opera non piacerebbe a nessuno e poi non si potrebbe chiamare neanche opera.

Il motivo sta nel fatto che durante il recitativo noi stiamo in attesa dell'aria, la sospiriamo, non vediamo l'ora che arrivi e tutto questo crea tensione, sì che quando l'aria giungerà sarà come un'esplosione, un orgasmo se volete, e aggiungo: poesia.

Questa invenzione di Mazzocchi comunque portò molta fortuna all'Italia.

Fu proprio grazie alle arie che l'Italia divenne la patria del bel canto, la padrona incontrastata del melodramma il tutto il mondo

Non c'era corte europea nel '700 che non avesse teatri stabili italiani con musicisti di grande valore come Lulli, Cimarosa, Spontini, Salieri e altri ancora, musicisti che fondarono teatri nazionali a Parigi, a Vienna, a Mosca.

Grazie al bel canto anche il linguaggio della musica divenne italiano e lo è ancora oggi.

Divertitevi a sfogliare degli spartiti di musica francesi o inglesi o russi o ostrogoti che siano e vi accorgerete che tutte le notazioni come forte, piano, adagio, crescendo, allegro, da capo ecc. sono scritte tutte in italiano.

A questo proposito fu proprio Mazzocchi l'inventore di intensità sonore e di tempo, insolite per la sua epoca; a lui si devono anzi i segni di crescendo e decrescendo nella notazione musicale.

Potete voi comprendere quindi quale tappa importante è stato Domenico Mazzocchi nell'evoluzione della musica e quanto gli debba essere riconoscente chi ama la musica e quanto debba sentirsi onorata Civita Castellana per avere un figlio così illustre.

La sua Catena d'Adone venne rappresentata per la prima volta a Roma nel 1626 ma ebbe più fortuna a Bologna nel 1648 al Teatro degli Uniti.

Il libretto è del Tronsarelli. Si intende per libretto proprio il libretto dove c'è scritto il testo teatrale che viene messo in musica. Quindi il Tronsarelli ha scritto il testo e Mazzocchi ha composto la parte musicale. Nel melodramma questa è una consuetudine. Per la Catena d'Adone di Mazzocchi il Tronsarelli si ispirò al poema di Giovan Battista Marino che si intitolava appunto L'Adone.

Che cosa vuole essere l'opera di Mazzocchi: si tratta di una favola ambientata in un bosco, favola di argomento mitologico. Ebbene quest'opera non è importante solo perché ci sono queste arie che spezzano il tedio del recitativo ma anche perché dà l'avvio, sul palcoscenico, a scenografie grandiose con meccanismi complicati e suggestivi: vi appaiono giardini incantati, voci nascoste, grotte misteriose, fitte foreste dove risuona la voce dell'Eco, la quale Eco risponde alle parole di Adone, Adone simbolo della bellezza giovanile per eccellenza, Adone amante disperato, Adone amato da Afrodite di cui non può più godere gli amori perché ucciso da un cinghiale nel fiore dell'età.

Ha scritto altre opere Domenico Mazzocchi, come i Sonetti e Musiche sacre e Morali che avremo l'opportunità di ascoltare dopo domani nella Chiesa Cattedrale. Certo una qualche curiosità ci viene nell'immaginare la rappresentazione della Catena d'Adone.

Si potrà mai rimettere in scena la catena d'Adone? A Bologna ebbe molto successo, ma fu l'ultima rappresentazione. Era di meccanismi così complicati che oggi sarebbe molto difficile per non dire costoso rimetterla in scena.

Dovrebbero tornare forse i Mecenati di un tempo, quei signori pieni di soldi (anche se sappiamo accumulati grazie alle fatiche di altri uomini), ma che pur tuttavia si lanciavano in imprese che hanno dato attuazione alle opere dell'ingegno umano.

Il Mecenate di allora potrebbe essere oggi, che so, un imprenditore, una persona facoltosa.

Ma voi ve lo immaginate un ricco imprenditore, anche del luogo togliersi lo sfizio di curare la rappresentazione della Catena d'Adone? Meglio una nascosta villa al mare con piscina, una Ferrari da collezione, una settimana al Danieli di Venezia, un fuoribordo per traghettare in Corsica una volta all'anno possibilmente con mare forza zero, bonaccia assoluta, perché sennò finirebbe per ritrovarsi alle Colonne d'Ercole.

Alfredo Romano


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A proposito di IMMAGINE DEL DUBBIO, commedia in due atti composta dagli
studenti dell’Istituto Tecnico Industriale di Civita Castellana, rappresentata in
città ma anche altrove, come in Sardegna, dove ha ottenuto un buon successo
di critica.

POSTFAZIONE ALLA COMMEDIA L'IMMAGINE DEL DUBBIO

UN LAVORO A CALDO, FRESCO, GENUINO:
SA ANCHE DI LETTERATURA


Quello che più sorprende in questa commedia è la voglia dei ragazzi di rappresentarsi, mettendosi a nudo per questo, senza pietà a volte, fino a porci sul piatto un loro profilo di vita e di pensiero non si sa quanto reale, non si sa quanto assurdo. E che cosa, se non la commedia, il linguaggio della letteratura quindi, poteva dare dignità e onore al loro stile di vita? E perché non la voglia di divertirsi?

Si divertono infatti i ragazzi e faranno divertire, anzi susciteranno risate, tante. Rideranno soprattutto gli spettatori-studenti, rideranno di se stessi. Si identificheranno in quel loro gergo alla moda così intriso di luoghi comuni, un gergo nato in quelle ore passate a “cazzeggiare” dentro e fuori del bar, nei luoghi del passeggio serale, negli interminabili discorsi sperperati nello stretto abita­colo di un’automobile, fumo e musica ad alto volume, so­gnando donne di carne e lontani invincibili eroi. Si identifiche­ranno infine in quel gergo nato sulle piste di una discoteca do­ve il corpo si annulla e si “libera” in un frastuono generale, nell’abbraccio di tutti e di nessuno, nella voglia di perdersi ai confini del mondo.

In questo contesto il disimpegno scolastico viene addirittura ostentato: il bravo studente (tacitamente invidiato) è uno che sgobba, il tema copiato diventa un vanto e ci si fa beffa dei discorsi impegnati e “moraleggianti”. Ma ci si fa beffa anche di quella “pippa” di mamma che è sempre lì a preoccuparsi dell’ora tarda, del vecchietto che rimpiange (sic!) la beata edu­cazione di un tempo, della professo­ressa che “accora” con quel suo continuo invitare gli alunni a frequentare i teatri di Roma per meglio acculturarsi.

Spicca, diciamocelo, il tipico ambiente di provincia, quel costante arrovellarsi sul che fare, dove andare, con quella noia che fa da cappa ad ogni gesto, ad ogni pensiero, ad ogni pa­rola.

Ma in questo mondo dove nulla deve accadere ecco che l’irruzione di una ragazza sulla scena arriva a scompigliare il tedio del quotidiano. È la ragazza dell’amico, la ragazza del “capo” che nell’immaginario dei provetti bulli diventa la bella di tutti. Ma è una intrusa la ragazza, scombina, divide il “branco”. E dagli quindi alla ragazza che non può immaginarsi che vamp e va in giro nuda perfino, provocante, una poco di buono. Da qui a fare della ragazza il simbolo del male il passo è breve. È con lei che arriva la droga. I ragazzi vengono loro malgrado coinvolti in una storia di ‘roba’. Han paura i ragazzi della ‘roba’, ne han paura come della ragazza (Eva non è an­cora morta e vive insieme a noi!).

Ma è proprio senza speranza questo mondo dei ragazzi di provincia? Ci si può chiedere: come mai questi ragazzi vanno a rappresentare poi il “peggio” di se stessi? Si potrebbe rispon­dere allo scopo di far ridere: lo abbiamo detto, e basterebbe da solo a riscattare la commedia. È liberatorio il riso, si sa, e come tale sprigiona potenzialità positive, perché ridere di se stessi significa sapersi accettare ma portarsi a casa anche qualche motivo di buona ri­flessione. Guai anzi se la commedia non tendesse al comico. Sensa il riso diventerebbe un disastro, sarebbe seriosa, patetica, noiosa. Ma poi, non lo nascondiamo, si può ridere del “meglio” di se stessi? No! Si ride infatti pro­prio delle sventure umane e non della vita che fila sempre liscia (Farebbe ridere altrimenti Charlot?). E poi non c’è niente di più noioso di un ragazzo cosiddetto buono.

E allora non fermiamoci su questo “peggio”, sui valori più o meno positivi che questi ragazzi vogliono rappresentare. Quel che è magnifico è che loro hanno lavorato intorno ad un pro­getto artistico e ci sono ben riusciti. Ecco, è proprio il lavoro che li salva e li fa su­periori ad ogni velleità provinciale, ad ogni scarto culturale. I dialoghi che questi ragazzi sono riusciti a tirar fuori in ore ed ore di lavoro collettivo hanno fatto scatu­rire un prodotto che proprio per la sua qualità umana e lin­guistica si svincola dall’ambito scolastico per ap­prodare su palcoscenici più universali. E questo, se permettete, è un va­lore, è far cultura, è mettere in moto dei meccanismi catartici (da kátharsis, parola greca che significa ‘purificazione’) che sempre in ogni caso ci portano a ragionare, a migliorarci quindi.

I messaggi che lancia la commedia poi non sono rivolti sol­tanto agli studenti ma anche e soprattutto al mondo degli adulti che sono invitati a familiarizzare con certi linguaggi e compor­tamenti. Ciò al fine di poter capire e meglio predisporsi a un dialogo con i giovani possibilmente senza pregiudizi. Bisogna essere curiosi allora di segni, gesti e parole che non fanno parte di un mondo estraneo: sono dei nostri ragazzi. Forse chiamano aiuto, forse ci ammoniscono, forse ci chiedono di guidarli, sì, con più decisione sulla retta via. Non è questione di mano de­bole o mano pesante, a volte non c’è nessuna mano, a volte trionfa l’indifferenza. Il mondo che stiamo loro lasciando in eredità con risorse e spazi verdi sempre più limitati e conflitti e guerre di ogni tipo non ci fa onore. Questa poca speranza per il futuro la si trova nelle parole dei ragazzi, anche le più insen­sate, anche le più volgari.

La commedia, per finire, ha un valore documentario: è un modo di vivere, di fare, di parlare, di pensare che si offre co­me studio per le generazioni a venire. Si tratta poi di un lavoro a caldo, fresco, genuino. Si tratta di letteratura. Ecco, forse abbiamo un tipico esempio che ci aiuta a meglio accostarci a un romanzo, a una commedia, a un prodotto letterario in ge­nere. Niente si inventa, tutto ci viene dall’esperienza: la lettera­tura non è una cosa astratta, campata in aria: è una architettura di segni e contenuti che hanno sempre il reale come sfondo. È l’astrazione, è la rappresentazione che nobilita il reale, bello o brutto che sia, ma sempre bello se almeno rie­sce a comunicarci un’emozione, un ritmo, un suono, un so­gno.

Bravi ragazzi, non vi resta che continuare a proporvi come modelli in questa voglia di fare!

Alfredo Romano

Civita Castellana, 3/3/1994

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Presentazione del libro di Sandro Santori

Marcello libero Alberto stopper. Bologna, Limina, 2000

Civita Castellana, Sana conferenze
Biblioteca Comunale, venerdi’ 15 settembre 2000


Sulla foto di copertina del libro di Sandro, c’è un'immagine dei tempi andati, osso seppia, il colore della nostalgia, dei ricordi: riproduce una squadra di calcio, sono i ragazzi del Civita Castellana negli anni sessanta. Erano i tempi in cui di foto se ne facevano poche, ma ognuna, oltre a darci un’idea dell’epoca, ci regalava anche quella tipica staticità dei personaggi che contribuiva a circondarli di un alone di mistero.
Una foto conservata nel cassetto per tanti anni e tirata fuori un giorno, per caso magari, in uno scrittore può far scattare una molla: quella di rimettere in moto vicende, sentimenti e sensazioni che le immagini rievocano. Nel nostro caso succede anche che ognuno dei compagni riprende in squadra la sua posizione: si fa avanti, dribbla, si smarca, rinvia, riceve, tira in rete… Ma non è un libro sul calcio, come ci tiene a ribadire lo stesso Sandro, il calcio è solo un pretesto. Lo scrittore si fa strada nell’animo sincero dei suoi compagni, che nel frattempo sono diventati grandi, e li trasforma in io narranti, ognuno con le sue vicende, le sue riflessioni, i suoi rimpianti, le vittorie e le sconfitte della vita. Ne escono fuori dei quadri che appassionano, perché ci si immedesima, ci si specchia nelle piccole storie che insieme fanno la storia e la vita di una generazione.
Sandro lascia, abbiamo detto, la narrazione ai suoi compagni. Questo gli ha consentito quel distacco che è utile, se non indispensabile alla narrazione. L’effetto è quello di trovarsi di fronte a delle confessioni, chiamiamole così, di animo sincero, che un linguaggio scorrevole, a tratti ironico e di sottintesa poesia, rende di estrema leggerezza. Sentite questa: Che scoppiettio di rondini, stasera. Cosa le ha spinte a tornare anche quest’anno? Provare per credere: finale di un capitolo a p. 56.
Lo scrittore è soprattutto riuscito nell’intento di stagliare nel mito i suoi personaggi, così nelle vicende di quei ragazzi si possono riconoscere anche tutti i ragazzi di ogni provincia d’Italia che in quegli anni hanno militato in una squadra di calcio. D’altra parte è proprio questa universalità che rende interessante il libro di Sandro, per cui è inutile, anche se umanamente comprensibile, stare a interrogarsi sulla vera identità dei compagni di Sandro. Non serve. Si scrive, ma questa è la funzione dell’arte, per non morire.
Io in quella foto non ci sono, mi sarebbe piaciuto esserci però. A Civita ero appena arrivato e, lontano dagli studi, davo una mano ai miei a coltivare tabacco in quel di Terrano. Di Sandro sono diventato amico presto, poi anche di Massimiliano. Nella vita, si sa, in seguito ci si perde di vista, ma quando ci si incontra, a volte per caso, è come essersi lasciati il giorno prima. Con Sandro ricordo infinite riflessioni e discussioni sul nostro stare nel mondo, sugli ideali che ci permeavano in quegli anni di rivolte giovanili: politica, religione e società erano al centro dei nostri discorsi. Poi si tiravano fuori le nostre poesie: c’era bisogno di affidare i nostri pensieri a qualcosa di più profondo, a un momento lirico. Venivano anche le canzoni, quelle che allora dicevano di voler cambiare il mondo. Io quelle canzoni le canto ancora, anche se, come Sandro, le ho incorniciate nel mio dagherrotipo osso seppia.
Io Sandro e Massimiliano, per un momento possiamo spegnere le luci e, come si fa al cinema, squarciare una nuvola e aprire una scena di tanto tempo fa. Sandro e Massimiliano sono venuti a trovarmi, lì a Terrano, in quel mondo di diseredati della terra. Il fosso è a quattro passi, io ho voglia di mostrare loro che, anche se provengo da estese terre di vigne e di ulivi, ho già imparato a muovermi nell’impervia selva dei boschi, e a guadare il fiume controcorrente menando le mani per gamberi.
Presto fatto: ci si arma di una rozza pentola d’alluminio, frise di pane, vino, olio per friggere. E’ un pomeriggio inoltrato d’estate, insieme si raggiunge il fosso passando tra filari di maturo tabacco. Ci si inoltra nel bosco in discesa avvertiti dall’odore inconfondibile del muschio, dal calpestio di foglie marce e di nascosti improbabili funghi. L’aria caldo umida si spalma sulla pelle, il rumore del torrente entra come l’ingresso di un nuovo strumento in quella magica orchestra che evoca i rarefatti suoni del bosco, il silenzio perfino. Siamo arrivati alla radura, il torrente ne lambisce i confini di vecchia sterpaglia: al diavolo le scarpe!, i piedi guadano il torrente, l’acqua fresca è un refrigerio che smorza il sudaticcio dei nostri giovani corpi, smorza le ansie e gli smarrimenti di noi ragazzi di incerto avvenire, sempre alla ricerca di una qualche verità assoluta: soprattutto in cerca d’amore. Ne fanno la spesa i gamberi, abbondanti: li catturiamo con l’inganno nella loro fuga a ritroso.
Nel torrente si inciampa, si cade, si va interi nell’acqua; più in là uno scroscio fragoroso ci avverte di una cascata: la testa va giù, si accumula freschezza, si beve, sì si beve, si sorpassano tronchi di pioppi caduti, ci si attacca alle liane e proviamo con gli ululati di Tarzan. I gamberi sono un pretesto, esattamente come il calcio nel libro di Sandro: la verità è che si reclamano le belle sensazioni, le belle emozioni, quelle che attraversano l’anima e il corpo.
Ma la rozza pentola è colma di gamberi. Si torna alla radura, l’aria è più fresca, le lunghe ombre dei pioppi ci avvertono della sera imminente. Presto! dei secchi rametti! Nell’olio fumante i gamberi si colorano di rosso acceso: frise, gamberi e vino, un mezzo toscano, l’accenno al motivo di una qualche canzone, l’accenno a una ragazza incontrata al mattino, alla parola amore che non si riesce mai a definire; l’accenno a promesse, propositi, a sogni a venire, pacche sulle spalle, risate. L’aria prende a farsi umida, le ombre della sera infittiscono il bosco, sui sentieri scendono come arpie vecchi rami cadenti. Andiamo, amici, si fa notte: a casa c’è qualcuno che aspetta.

Alfredo Romano


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GLI ALUNNI DELL’ISTITUTO D’ARTE
SI FANNO POETI E PRESENTANO UN LIBRO

(da un articolo del giornale locale Lazio Sette)

Venerdì 17 giugno 2005, alle ore 17, nella sala “Alberto Trocchi”, presso la Curia vescovile di Piazza Matteotti, è stato presentato un volume di poesie dal titolo: “Scrittori… per caso: Speranza, Amore, Amicizia, Natura, Morte, Vita, Karol…. Autori delle poesie gli alunni delle classi IB, IIB, IIIB, IIC dell’Istituto d’Arte “Ulderico Midossi” di Civita Castellana, coordinati dalla loro prof.ssa Maria Loretana Sabbatini. La sala è stata affollata da un pubblico attento e caloroso, in gran parte amici e familiari degli stessi ragazzi-autori, i quali occupavano le prime file con un senso di incredulità quasi per l’interesse che veniva riservato ai loro componimenti. Le stesse poesie, tra l’altro, avevano appena meritato il premio letterario “Canto e Disincanto” organizzato dall’Assessorato alle Pari opportunità del Comune di Viterbo.

Presenti alla manifestazione il dirigente scolastico dell’Istituto d’Arte Franco Chericoni, il vescovo Divo Zadi, l’insegnante dei ragazzi Maria Loretana Sabbatini, che ha raccontato il “viaggio” suo e dei ragazzi per la realizzazione del progetto di poesia, e Alfredo Romano, bibliotecario della nostra cittadina, che dapprima ha svolto una relazione introduttiva sulla poesia e poi ha letto alcune poesie tra le più significative.

Qui di seguito il discorso ai ragazzi di Alfredo Romano.

L’EDUCAZIONE ALLA POESIA: QUANDO A SCUOLA
SI IMPARAVANO LE POESIE A MEMORIA.

Cari ragazzi, questo esprimervi sui vostri temi esistenziali e della realtà che vi circonda con un linguaggio oggi inusuale, quello della poesia, è lodevole e straordinario.

Prima, tanti anni fa, la poesia si respirava in casa: non c’erano libri di poesia, ma le persone anziane erano depositarie di una tradizione orale dove, accanto a proverbi, racconti e tiritere, non mancavano le poesie, specie quelle narrative, e noi ragazzi crescevamo al suono dei ritmi della poesia, ci prendevamo gusto, tanto che, quando s’affacciava l’approccio con le poesie della scuola, per noi non era una novità. Così, per non essere da meno dei nostri padri, per tutto il periodo delle elementari e delle medie, ma anche delle superiori, venivamo educati a imparare le poesie a memoria, anche quelle dei poeti minori: mi vengono in mente Francesco Pastonchi, Angiolo Silvio Novaro, Luigi Mercantini.

Quando frequentavo le scuole medie, c’era perfino un professore d’italiano che portava in classe un magnetofono (si chiamava così il registratore allora con tanto di bobine) per registrarci mentre recitavamo Omero. Lui pretendeva l’uso di certi toni, una certa cadenza e un ritmo tale, che nel verso si doveva sentire come una musica. E non aveva torto, visto che la poesia, alle sue origini, aveva un andamento melodico, non si recitava, ma si cantava quasi.

E’ un peccato che oggi a scuola non s’imparino più le poesie a memoria. Erroneamente si crede che quello fosse per i ragazzi un puro esercizio mnemonico, e invece, ancor oggi mi ritrovo in tante occasioni a ripetermi brani di alcune poesie imparate a memoria da ragazzo e vi assicuro che provo un certo diletto, per non dire felicità, quando succede.

E non fui sorpreso quando Italo Calvino, prima che morisse, a un intervistatore che gli chiedeva un consiglio per i giovani, lui, sensa scomporsi, rispose: “Imparare tante poesie a memoria, così, quando saranno grandi, quelle poesie faranno loro tanta compagnia”.

Allora, imparare le poesie a memoria significa anche educarsi alla poesia, perché poi ci sono ritmi, cadenze, pause che ti restano dentro e che continueranno a far parte del tuo bagaglio culturale e vitale.

Insomma, nessuno nasce imparato, si dice, e, come il garzone che va alla bottega artigiana per imparare da grande a costruire un mobile, così, per diventare poeti, occorre leggere e leggere poesie, scoprirne piacevolmente tecniche e segreti. Solo così ci si può impadronire del linguaggio della poesia e diventare poeti a sua volta.

I linguaggi dell’arte sono tanti, anche la poesia è un linguaggio e, come tutti i linguaggi, serve proprio per comunicare. In fondo si suona, si disegna, si recita, si fa poesia, proprio perché abbiamo bisogno di trasmettere esperienze ed emozioni che solo l’arte può nobilitare e rendere universali.

Succede così che riesci a dire con la poesia ciò che non sarebbe possibile raccontare col linguaggio di tutti i giorni, talvolta così banale. Questo spiega perché la poesia è una delle più belle forme di libertà, perché uno si può mettere a nudo con la poesia, rivelare stati d’animo, sogni, aspirazioni che sono accettati da chi sente o legge proprio perché espressi in forma poetica. Anche cose esecrabili dette in poesia si fanno perdonare. Ecco, la poesia non ha colpa, come non ha colpa un quadro, un brano di musica, perché l’arte è sinonimo di libertà.

C’è chi dice che la poesia salva la vita. Succede, a volte, che non sopportiamo il peso delle nostre esperienze, della nostra vita quotidiana, del solito tran tran; oppure emozioni che ci distruggono, come l’indignazione, la rabbia, l’odio, l’angoscia, il senso di noia, ma anche un amore che ti devasta. Ecco, se riusciamo a chiudere il tutto in una gabbia di poesia, otterremo di trasformare la forza distruttrice di certe emozioni in qualcosa di bello, di creativo. Vi assicuro che è l’unico modo per non lasciarsi sopraffare dalle emozioni.

Che cos’è la poesia scritta? È proprio una gabbia in cui dentro stanno chiusi stati d’animo, idee, emozioni che si liberano d’incanto nel momento in cui la leggiamo. Leggere una poesia ad alta voce, poi, è come stappare, permettetemi il paragone, un buon vino d’annata, quando, d’incanto, si aprono profumi, aromi e sensazioni per la gioia della del nostro naso e del nostro palato.

Pavese diceva che anche una sigaretta spenta sulle labbra può essere oggetto di poesia. Dipende sempre dal linguaggio, dalle sensazioni che ci provoca la poesia, da come riesce a sorprenderci soprattutto. Ecco, la poesia, leggendola, ci deve sorprendere in qualche modo, deve farci restare di stucco. Solo a questa condizione la poesia diventa tua. E ciò perché, una volta che la poesia è stata licenziata dal poeta, ecco che, come una canzone, diventa di tutti e non appartiene più al suo autore, ormai vive di vita propria. D’altra parte leggere o recitare la poesia di un poeta è come trascriverla di nuovo, sì proprio come scrivere un’altra poesia.

Ma che cos’è la poesia? Possiamo tentare una definizione. La poesia è l’arte e la tecnica di esprimere in versi esperienze, idee, emozioni, fantasie ecc., versi in cui c’è una visione soggettiva, e talvolta anche universale, di sé e della realtà circostante. Ma per chiamarsi poesia il linguaggio deve avere un certo aspetto fonico, un certo ritmo, un certo timbro, una certa sonorità.

Questo per dire che, per comporre una poesia non basta andare a capo a casaccio nel verso, perché occorre che ogni verso abbia un senso compiuto.

Ora veniamo alle vostre poesie. Da anni ho esperienze di lettura di racconti e di poesie con i ragazzi delle scuole elementari. Devo dire che sono molto sorpreso dalla curiosità dei bambini e dall’educazione alla lettura e alla poesia che ricevono dalle loro maestre. Si sa che le nostre scuole elementari hanno un grado d’eccellenza che ci invidiano anche i paesi stranieri. Forse perché in tenera età la lettura di testi e poesie rappresenta ancora un gioco. Di fatto è così

Nelle scuole medie, invece, questo tipo di educazione va scemando, anche se ci sono insegnanti che resistono e si prodigano. Ma, si sa, leggere una poesia richiede sempre un certo sforzo, una qualche attenzione, cosa che diventa sempre più difficile in un mondo dove non c’è più silenzio e, perfino in casa, la televisione è diventata la colonna sonora della giornata.

Ho già detto che non si imparano più poesie a memoria come una volta, men che mai alle scuole superiori, per cui sono rimasto piacevolmente sorpreso quando la vostra insegnante Loretana Sabbatini mi ha consegnato una raccolta di poesie di voi ragazzi dell’Istituto d’Arte.

Cari ragazzi dell’Istituto d’Arte di Civita Castellana, ho apprezzato il vostro tentativo di dare un senso alle vostre idee, alle vostre aspettative, ai vostri sogni, alle vostre paure con la poesia. Questo vi dà un tocco di distinzione, significa che siete alla ricerca di un linguaggio che riesca a trasmettere con più forza, con più passione, o con più grazia, il vostro mondo di ragazzi. Gli adulti non vi capiscono, a volte, è vero: provate a farvi capire con la poesia. Non vergognatevi di usare il linguaggio della poesia anche con i genitori. Forse può più un verso che cento litigate nella comprensione reciproca.

Ma adesso che avete scoperto questo nobile linguaggio della poesia (col quale non si guadagna un bel niente, è vero, ma vi assicuro che dà altri insospettabili guadagni), non fermatevi qui. Siate curiosi dei poeti, andateli a cercare (in biblioteca li troverete tutti, italiani e stranieri), cercate di rubare il segreto del loro linguaggio, fatelo vostro, innamoratevi di un poeta, fatene il vostro angelo custode. Così, vi può anche succedere di scrivere in poesia che si ha voglia di morire, ma proprio perché lo si è scritto, proprio perché lo si è gridato ai quattro venti, ecco che ne vien fuori una insopprimibile voglia di vivere: la poesia che salva la vita, appunto.

Alfredo Romano

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