venerdì 11 gennaio 2008

Alcuni racconti



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DOMENICO AMATO, PRESENTE!

Domenico Amato e la moglie Mafalda Belmonte Sofia. Civita Castellana, in località Terrano, 1990.
L'addetto al censimento invano scrutava l'aperto orizzonte, a metà strada sulla via di Terrano, per una casa, un muro, qualcosa. Domeni­co Amato insomma.
Né un fazzoletto rosso legato in cima a uno dei due pali che segnano l'ingresso d'una carreggiata che s'incurva fino a perdersi nell'orrido, po­teva rappresentare per il suddetto una traccia sufficiente.
Fu così che Domenico Amato non venne censito e, buon per lui, vi­sto che le statistiche (non si sa mai) vanno magari a spiare quel po' di prosciutti conservati per l'inverno!
In realtà quella carreggiata portava in quell'interrata e abusiva casa di Domenico che il figlio muratore ha tirato su di festa in festa aggrappan­dola sui fianchi di un fosso malvagio. Cacciato letteralmente dalla Tenu­ta Terrano, Domenico ha dovuto vendere i suoi tre aridi ettari di terra calabrese in cambio di un povero appezzamento a Civita Castellana.
Niente paura, niente trattore. Le mani bastano a ridurre in fertile polvere quei massi di tufo lunare, le mani per dar luce e respiro a un terreno di vecchia sterpaia.

Le mani di Domenico. Osservatele: sono rami d'un tronco nodoso dove a volte s'aprono fessure di carne che non conosce suture. il gelo le spacca e il caldo non basta a chiuderle, e Domenico con gesto di sfida vi spegne pure tranquillo, sul palmo, l'ultimo morso di sigaretta.

Non chiamate profanamente orto il suo variopinto giardino. Pomo­dori insalate e cocomeri fanno gola (peggio che Tantalo) a quei mono­toni pioppi che sfilano alti ai margini del torrente. Strani spaventapasseri vi s'aggirano, vestiti dei suoi abiti smessi, un berretto militare con l'imman­cabile striscia rossa a dirvi, passerotti e no, che Domenico è lì con una zappa più grande di lui ad affondare zolle mai smosse.
Alto è l'arco della zappa, ritmato, scandito da un ooh! di gola soffoca­to, a misurare il tempo di un orologio che non c'è, ma di un sole che s'alza e tramonta sull'ultimo sterpo rubato, a far legna, a una vecchia siepe.
Domenico, chi sei? Piccolo e magro i Turchi ti cacciarono dalla terra d'Albania 500 anni fa e ti fu vano l'eroismo di Scandenberg nel tuo rifu­gio sui monti di Calabria a Carfizzi.
Niente è cambiato da allora, e a 70 anni insegui ancora il mito d'una terra promessa: E 'adesso ti dico pure io una parola. Quando siamo nati siamo nati tutti nudi. Uno solo ha 100, 200, 300 ettari, uno solo tutto il mondo. Dove 1'hai comprato? Da Alfredo. E Alfredo? Da quel giovanotto. E il primo il primo? L'ha fregato a Gesù Cristo, s'è imposses­sato lui, è tutto mio, perché noi siamo nati per mangiare in aria. La terra doveva essere di quello che la zappa, di quello che la lavora!.
E nata nella tua vicina Melissa questa tua filosofia. Lontano sentivi gli spari dei poliziotti sui contadini che occupavano le terre incolte per far pane per i propri figli come dici tu. Saranno gli sposi al paese ti spiegava il cugino Mariano e tu non po­tevi che credere.
Tu infatti non hai mai odiato i padroni, non sei capace di odio e an­cora oggi ti fai in quattro per un impiegato, un carabiniere, un politico che escono da casa tua con le borse piene in cambio di promesse mai mantenute.
Son anni che ti promettono la luce. E già, perché, se non lo sapete, da anni Domenico vive al buio. Pur a quattro passi dalle linee elettriche l'Enel chiede fior di milioni per l'allaccio. Così anche quel pozzo artesiano che ti sei fatto scavare per il fabbi­sogno d'acqua non ti serve a niente senza corrente. Quindi anche senz'acqua.
Stazionano ai quattro angoli esterni della casa vecchi fusti di petrolio a raccogliere l'acqua piovana. Per bere, Mafalda, la moglie, va a mendicare l'acqua presso un caseggiato lontano.
Caro Domenico, abbiamo interessato tutti onestamente per la tua luce, la tua acqua, beni per noi tanto scontati. Ma forse che un altro, più intrigante, non avrebbe trovato quella so­luzione così perfidamente negata a uno sconosciuto contadino calabre­se?
Ungere Domenieo, ungere bisogna; ma tu sai solo sputare sulle cal­lose mani per farle meno ruvidamente scivolare su manici di zappa con­sumati.
T'ho visto qualche tempo fa un po' sperduto sotto i portici del Comu­ne con in mano una cartolina speditati dall'Ufficio anagrafe allo scopo di finalmente censirti, benché trascorsi più di due anni. Forse non scherzavi troppo nel credere fosse una cartolina prccetto. Così ci hai ripetuto per l'ennesima volta dell'8 settembre del '43 quando, sbandato, percorresti a piedi mille e più chilometri da Udine a Catanzaro.
Abbracci, quanti me ne hai dati! E solo perché talvolta t'ho spianato la strada della burocrazia nemica, a te che per vivere basta un bicchiere, una sigaretta, un po' di sole e una tessera del PCI del '67, consunta, ge­losamente custodita nel portafoglio. A tutti la vai ostentando, non certa­mente per chiedere qualcosa (alla tua età ormai) ma solo forse per dire chi sei, da dove vieni, le speranze e i sogni che ti hanno cullato su per quelle solitarie mulattiere attraversate, anzi l'alba, a dorso d'asino, gli occhi chiusi su bianche e comode lenzuola, roba di signori: Faceva si­mile cosa cu due sumarti, cui pettorali, cu l'aratri, l'hai visti? A mete­re a manu tuttu giugnu a metà lugliu e mangíavamu al sole. Dopu, quandu trebbíavamu u granu, cu la trebbia, cu l'ara puru, cu i boi, cu u mulu, cu lu sumarru, gíravamu sempre tutta la jurnata, al sole, ad agostu, puru settembre. E quandu trebbíavamu u granu, dopu che ll'avìeme pulizzatu, ai sacchi, ai tomi li chíamamu nui, te menzu quintale e menzu quintale te l'altra parte, au bastu, e camminavamu a piedi tre ore e menza, quattru ore, puru cinque, tuttu in salita comu la montagna te Sant'Oreste, a piedi, senz'acqua pe' strada, i piedi schiattàvane di sangue, rivava a casa pe' mortu!
Caro Domenico, ti regalerò una chitarra nuova perché quella tua vecchia di tanti anni,fa è ormai rotta e si scorda sempre. Il manico poi è così stretto che le tue callose dita fanno fatrica a muoversi negli spazi tra le corde.
Perché Domenico, se non lo sapete, prima che faccia buio, sa pure allietarvi al ritmo d'una tarantella, a rimembrarvi vecchi balli sull'aia, amori e sguardi goduti nel giro d'un valzer, strappati alla vista di mamme severe, a un mattino di fatica che mai tarda a venire.
da FATTI E FIGURE DEL NOSTRO PAESE
L'Informatore Civitonico, n. 14 feb. 1984
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La premessa al racconto VENIVA DA LECCE LA BELLA MAESTRINA

Voglio dirvi che stasera voglio bene a tutto il mondo, a tutti voi in particolare che siete venuti in biblioteca e che non so come ringraziare.
Da 23 anni lavoro in questa biblioteca, mi passano per le mani centinaia di libri da catalogare e da prestare. Mi passano come le cortine di tufo per un cavatore, con la differenza che io con i libri mi diverto. Mi sono divertito pure a scrivere questo libro e mi piacerebbe che potesse divertire anche voi.Adesso voglio raccontarvi una storia. E' la storia di un incanto e di un disincanto. Ma non è la storia di una delusione, è che a un incanto segue sempre un disincanto e io, in genere, me li vado a cercare tutti e due, perché l'uno è la condizione dell'altro. In breve: io credo ancora nelle favole, anche se in giro ci sono alcuni, poveretti, che dicono che non sono vere. Ogni tanto poi sbatto il muso contro la realtà: questo fa bene. Ma quelli che non credono nelle favole il muso non ce lo sbattono mai: e questo fa male.
Voglio farvi una premessa. Io sono contento di essere un leccese di Civita Castellana. Se così non fosse io questo libro non l'avrei mai scritto e voi non sareste qui stasera a farmi festa.

E adesso vi voglio raccontare.



VENIVA DA LECCE LA BELLA MAESTRINA


Vestiti d'un grembiulino nero, un po' lacero ma pulito, con un
colletto bianco
inamidato allacciato da un grosso fiocco azzurro, stavamo affacciati col naso schiacciato contro il vetro, alla finestra della scuola elementare. Attendevamo tutti con ansia l'arrivo della bella maestrina. Era puntuale. Ad un minuto dal suono della campanella sopraggiungeva sul piazzale una fiammante 600, color verdino, con le portiere che dall'interno si aprivano sul davanti.
Accompagnata da un fusto di fidanzato, vestito in doppiopetto grigio con i baffetti alla Fred Buscaglione, la maestrina, nell'atto di scendere dall'auto, divaricando le belle gambe, lasciava involontariamente scoprire un pezzo della sua carnagione bianca. A quel punto per un posto in prima fila alla finestra succedeva di tutto: spintoni, gomitate, cazzotti e colpi bassi. Poi tra un fuggi fuggi generale ognuno al suo banco e a far finta di niente al sopraggiungere in classe della maestrina.
Portava generalmente delle scarpe bianche a punta con tacchi alti, un tailleur classico chiaro con gonna che scendeva oltre le ginocchia, una camicetta bianca con colletto smerlato alla quale dava risalto una collana di perle a triplo giro che ornava un collo gentile, a reggere un viso dolce e bianco, di una bellezza non sovrastante ma delicata, pulita, sfumata da una punta di rossetto che sprigionava un profumo vagamente di violetta, profumo che faceva svenire anche quelli dell'ultima fila di banchi che a quel tempo erano i più asini della classe.
La bella ed elegante maestrina veniva da Lecce. Ma la maestrina non poteva che venire da Lecce. Tutto ciò che era signorile, tutto ciò che era bello, che era grande, che era diverso, tutto quello che noi non conoscevamo, che non avevamo mai visto, veniva da Lecce.
Per noi bambini di Collemeto, una frazione allora di pochi contadini, Lecce era un sogno. La maestrina leccese non perdeva occasione di parlarci con dovizia di particolari dei grandi palazzi baronali, delle bellissime chiese barocche, delle ville liberty, dei negozi fantasiosi dove si poteva trovare merce indescrivibile, mai vista, che magari arrivava dall'America o dall'Oriente lontano; ci deliziava facendoci mentalmente entrare in quel bazar che doveva essere il mercato coperto dove c'era tutto il ben di dio: potevi trovare pesci dai mille colori, e alcuni lunghi anche un metro; c'erano montagne di cozze, di ostriche, di polpi; c'erano cataste di agnelli, carni di tutte le specie; c'era gente addirittura che cucinava per strada.
E poi sacchi e sacchi di verdura, di cicorie, finocchi, rape che la gente comprava a bracciate e chi aveva le braccia più lunghe ne portava a casa di più. E c'erano traini pieni di quintali di mandarini, di aranci, di noci. E poi era tutta una festa, Lecce era tutta una festa, con le belle strade illuminate di notte che sembrava giorno, con i suoi cinema dove potevi vedere Totò, conoscere Amedeo Nazzari; con i suoi teatri dell' 800 dove si esibivano i grandi cantanti d'opera, le belle e provocanti ballerine alcune delle quali si mormorava venissero da Parigi.
Ad occhi aperti noi ragazzi di Collemeto, sognavamo Lecce e giuravamo: quando saremo grandi andremo a Lecce. Lecce che dista da Collemeto soltanto 17 km.
Per tutte quelle meraviglie che ci raccontava la maestrina noi restavamo “sbabbati” come dire a boccaperta. A noi ragazzi di Collemeto ci sembrava allora di non avere niente se non le strade per giocare, i campi di grano dove nasconderci, i lunghi filari di viti per rincorrerci tra folti grappoli d'uva nera che ci impiastricciavano la bocca tra un fiatone e l'altro, gli alberi d'ulivo centenari sui quali arrampicarci a caccia di nidi, a caccia di cicale. Non c'era l'acqua in casa, non c'era la luce, ogni sera la mamma ti mandava a comprare mezzo litro di petrolio per la lampada.
E la maestrina si divertiva a sorprenderci, a raccontarci di quel paese delle meraviglie che era Lecce. E rideva, rideva molto delle nostre goffagini, del nostro essere dei cafoni di provincia che in italiano sapevamo appena pronunciare "buongiorno". Per noi i Leccesi erano gli abitanti di questa città meravigliosa che sognavamo. Nel dopoguerra in Italia c'era il sogno americano, per noi ragazzi di Collemeto c'era invece il sogno leccese: e ci bastava.
Succedeva talvolta che mio padre si recasse a Lecce. Tornava sempre con delle cose, a volte anche qualche cassetta di frutta, oppure qualche chilo di carne. Ai vicini non bisognava far vedere, non era giusto suscitare invidie, pur trattandosi di poca roba. Poteva capitare da parte nostra di non apprezzare sempre le sorprese di mio padre e allora lui con rabbia e risentimento: "Disgraziati!" ci apostrofava "lo sapete che questa roba l'ho comprata a Lecce? Questa roba mi costa mille lire come mille santi del Paradiso!".
Ancora oggi se incontro un leccese e lui scopre che sono di Collemeto, mi guarda come per dire "Poveretto, non ti poteva capitare di peggio, beh sai, io sono di Lecce!".
Poi un giorno di tanti anni fa, avevo 16 anni, arrivai a Civita Castellana. Alcuni mesi prima di partire, sapendo di dover emigrare a Civita Castellana, andai a curiosare sull'atlante geografico. La vedevo tanto lontana Civita Castellana, non ero mai stato così lontano. E mi immaginavo boschi di favola, mi immaginavo fiumi, mi immaginavo montagne, alberi giganteschi, paesaggi che avevo intravisto solo sui libri di scuola.
Quando il furgone stipato di gente e bagagli come sardine fece ingresso a Civita Castellana provenendo dalla Cassia, imboccò la strada di Terrano e sul ponte mi resi subito conto che quello che avevo sognato di Civita Castellana era vero, lo stavo toccando con mano..
Mi apparve bellissima Civita Castellana, questi fossi così lussureggianti, queste valli che si perdono in lontani casali come fossero fatti di cioccolato, i fiumi, questi tortuosi torrenti e cascate sormontati da altissimi pioppi, le montagne sullo sfondo, il paesaggio vario con le discese e le salite che contrastavano con le aride e monotone pianure delle mie parti.
Tutto mi sembrava bello. Sì, entravo in un paese nuovo, fantastico, ero eccitato, impazzivo in quella corrierina anche qui col naso schiacciato contro il vetro del finestrino e gli occhi che non si davano pace nell'imbarazzo di dover rubare con lo sguardo il paesaggio meraviglioso che mi sfumava alle spalle e invano gridavo a Vittorio, il conducente, di rallentare: "Avrai tempo, avrai tempo", mi assicurava.
Qualche giorno dopo poi, mi accadde di incontrare un signore, proprio nel Duomo di Civita. Il signore s'accorse che non ero di Civita Castellana e sorpreso dal mio accento mi domandò: "Sei un leccese?"*
"Un leccese?" risposi "beh, sì, della provincia: più precisamentesono di Collemeto, una piccola frazione di Galatina. A dire il vero ho sempre sognato di essere un leccese, ma mi dispiace deluderti, sono di Collemeto, un paese piccolo che non conosce nessuno, anzi non è neppure un paese, sono proprio quattro gatti"
"Ma a Civita Castellana" riprese il signore con un certo stupore "quelli che vengono da laggiù li chiamiamo tutti leccesi".
"Veramente? Ah che bello, ci chiamano leccesi? Almeno potrò vantarmi e dire che vengo da Lecce, un cittadino, non un cafone di Collemeto!".
Qualche anno dopo, tornando al mio paese, mi capitò di incontrare un mio amico, proprio di Lecce città. E gli confidai: "Lo sai che adesso sono un leccese anch'io?"
"Sul serio? Ma stai scherzando: ti sei trasferito a Lecce?"
"No, a Civita Castellana"
Il mio amico non capì, io però sì. E dentro un po' amaramente prese a echeggiarmi il motivo del Bolero, quello di Ravel, fino a che il crescendo non mi fece esplodere in una fragorosa risata, fra l'incerta ilarità del mio amico.
Relazione tenuta nella sala delle conferenze della biblioteca comunale di Civita Castellana il 3/4/1993 in occasione della presentazione del volume "Salento tra mito e realtà".

* Esiste una folta comunità di Salentini a Civita Castellana dove il termine leccese ha assunto nel corso degli anni un significato improprio, come dire terrone, incivile ecc.
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QUANDO SUL TARDI IN BIBLIOTECA SI LEVA QUEL VENTO DI SCIROCCO

Fa più caldo del solito di questi giorni in biblioteca. Non è un segreto. Nella mattinata poi, sul tardi, si leva sempre un vento di scirocco che raduna un po' di nuvole afose che, non appena pomeriggio, sono pronte a scaricare lampi e tuoni su qualche altura circostante. Non mancano in verità acquazzoni improvvisi per attese frescure. Ma che vuoi, sollevano un po' di polvere, spruzzano qualche punta di ozono e aumentano il famoso tasso di umidità. Tasso che si concentra particolarmente in questa serra a basso costo che è la biblioteca, favorito dalle lunghe e ampie vetrate che sorreggono l'alto soffitto della "navata" centrale.
Quand'è così ti vien voglia di aprire le finestre, per dare sfogo a qualche alito di vento che possa accarezzare le madide fronti dei lettori, nonché scongiuri i milioni di acari che al caldo, nelle pieghe

dei libri, se la ridono. Ma non s'aprono le finestre di ferro arrugginito perché l'architetto dell’antico mercato coperto, ora biblioteca, s’era premunito di scoraggiare eventuali ladri di frutta, ortaggi e polli vari. Non aveva fatto i conti con la prima estate però l'architetto, quando s'avvide che l'uva spontaneamente diventava passita, con grande gioia del vin santo, e i fiori attecchivano per incanto dando vita a nuove composizioni, e i polli, dopo un principio di sudore, rosolavano lenti, facendo risparmiare sul gas.
Ma polli e ortaggi, un bel giorno, eludendo la stretta sorveglianza dei venditori, trovarono il modo di darsela a gambe:
«Che razza di gente!» disse il pollo sdegnato, uscendo di corsa da una porta secondaria e facendo strada all'esercito di frutta, verdure e carni varie che lo avevano eletto a capo indiscusso della fuga «che maniera! tapparci in questo forno, farci soffrire così!: si vede proprio che non c'è più rispetto. Ci mettessero libri, se proprio insistono, quelli almeno non soffrono. Ché soffrono i libri?» rivolto ai compagni di fuga.
«Ché soffrono i libri?» intonarono in coro tutti gli altri. Ma questa domanda rimase nell’aria, sospesa, e nessuno seppe darvi risposta.
Il caso volle che il lamento del pollo, come quell'idea dei libri, venissero raccolti al volo proprio da tre maggiorenti del partito che aveva vinto le elezioni. Costoro si recavano in delegazione al mercato coperto per saggiare gli "umori" delle merci varie.
«Avete sentito?» disse il primo maggiorente, non riuscendo a spiegarsi tanto trambusto intorno al mercato.
«Non abbiamo bene afferrato» si affrettarono a rispondere gli altri due «ma abbiamo come l’impressione di un fuggi fuggi generale.» E il primo continuò: «Mi pare che le merci parlassero di libri. Un pollo non ancora rosolato consigliava di sistemarli proprio qui al mercato, vanto della nostra città. Non è proprio una cattiva idea: sempre meglio che lasciare la biblioteca in quello che era l'appartamento del maresciallo nella vecchia caserma dei carabinieri.»
«Mi sembra giusto, oltretutto la merce, che è la nostra base, va ascoltata: questa è vera democrazia» proruppe il secondo maggiorente. «E poi è vero» continuò, «troppe lamentele si sentono in giro a proposito del mercato coperto. Magari in paese si esagera nell’insinuare che c’è stato uno sbaglio di progettazione. Si tratta di una calunnia. Sì, insomma… Si dice che l'architetto, avendo tanti progetti per le mani, ne scelse uno a caso e invece del mercato venne fuori una serra a forma di chiesa con tre navate. Ho visto io stesso gente di fuori passare qui davanti e farsi la croce. Per non dire di chi cerca il parroco, entra e si trova costretto a comprare un chilo di pomodori. Ma ditemi, che sta succedendo? sbaglio o qui scappano tutti?»
«Io ve ce manderei voi all’inferno e quelle tro...» Ma non s'avvertì il finale in mezzo al frastuono generale.
«Propongo anch'io di sostituire i polli e gli ortaggi con i libri della vecchia biblioteca. I libri, si sa, non soffrono e né scappano, qui li lasci e qui li trovi» finì per sentenziare il terzo maggiorente.
Fu così che in capo a qualche anno il mercato coperto fu trasformato in biblioteca. L'evento fu storico. Per l’inaugurazione venne invitato perfino un grande scrittore, accanto al quale l’assessore alla cultura di turno non ci stava nella pelle: «Anch’io anch'io» si raccomandava impettendosi più del solito di fronte al paparazzo.
Onestamente tutti ammirarono la nuova biblioteca, le belle travi di ferro petrolio, i bei soffitti e controsoffitti di nordico pino. Ma gli scaffali? Gli scaffali niente. Sì, qualche fila modesta, ma scaffali...
«Che fine hanno fatto gli scaffali?» urlava come un ossesso il bibliotecario. E a ogni urlo seguiva una sventagliata di piccioni spaventati. I quali piccioni, in verità, si sentivano discriminati rispetto alle colonie degli altri piccioni. Avevano sì preso possesso, a loro modo di vedere, di una chiesa, ma il campanile? Costretti ad andar per tetti piuttosto che alloggiare nell'abituale piccionaia, allietata tra l’altro dal suono delle campane, non sapevano se prendersela col famoso architetto, direttore dei lavori, o col vescovo in persona.
«A me è stato chiesto di progettare un centro culturale e non una biblioteca» si giustificò l'architetto.
«E i libri, dove li mettiamo i libri?» seguitava a squarciagola il bibliotecario. E di nuovo la sventagliata dei poveri piccioni.
Ma da lì a qualche giorno, come per incanto, ecco che apparvero in biblioteca decine di scaffali, posti proprio in quegli enormi spazi che l'architetto aveva progettato vuoti, forse per eventuali feste danzanti o caffetterie o sale da tè per lettori allegri e festosi.
In verità l’infìdo bibliotecario, con un vero colpo di mano, approfittando del novilunio, s’era trascinato dalla vecchia sede, uno a uno, gli ancora solidi scaffali, legandoli al portabagagli della sua malconcia Renault (Quando si dice gallina vecchia!).
«Chi ti ha dato il permesso? Ci sono troppi libri in questa biblioteca: questo si chiama sfruttamento democristiano dello spazio» sbottò l'architetto contro il bibliotecario, non appena avvistò i vecchi scaffali che deturpavano, quali intrusi, a suo dire, la sua opera d’arte. «Quello che conta» andava ripetendo «è che il lettore, mettendo piede in biblioteca, non si lasci fuorviare dai libri, ma sia folgorato dalla bellezza dei colori, dall'armonia delle strutture: a tal punto da sentirsi sollevato al primo piano e provare la cosiddetta tentazione di volare.» Poi, con tono più prosaico: «E con le foto, come la mettiamo con le foto? Ho promesso foto a fior di riviste e adesso tutti questi libri su quegli scaffali mi hanno rovinato tutto, tutto... Siano maledetti i libri e più ancora il bibliotecario! Ma dove l’avete pescato questo c... di bibliotecario?» Questa volta rivolto all’assessore al patrimonio che gli stava dietro come un segugio. E costui:
«È un leccese, architetto, è quanto di peggio ci potesse capitare. Tratta i libri come fossero tabacco. Raccoglieva tabacco un tempo e l'ho visto io tra i filari con enormi mazzi di foglie in mano, sovrapposte così bene, da scambiarle per le pagine di un libro. Lui non possedeva libri, architetto, e così gli sembrava di leggere. Che era la sua passione. Per vendetta giurò che un giorno avrebbe riempito questo paese di libri. Non può vedere spazi vuoti, è più forte di lui: appena può ci ammassa cataste di libri. Che poi non capisco dove prenda i soldi per comprare tutti questi libri. A dire il vero noi gliene diamo pochi. Sarà amico di un asino fatato, certamente.»
«Quale asino! assessore!» tagliò corto l’architetto.
«Sì, si dice che nasconda un asino che di notte, invece della cacca, gli fa tante monete d'oro, e sopra un lenzuolo bianco per giunta, tutto ricamato. È un asino esigente, se è per questo.»
Quindi all'indirizzo del bibliotecario: «Chi ti ha dato il permesso di sistemare così tanti libri e scaffali in biblioteca? Sbarazziamocene! te lo ordino! via, accantoniamoli da qualche parte! che non si vedano!»
E aggiunse: «Un po' di pazienza diamine: facciamo passare almeno il giorno dell'inaugurazione! Che figura mi fai fare: ci saranno ospiti di riguardo, notabili, giornalisti, il vescovo in persona a benedire.»
«Shakespeare! me l’ha dato Shakespeare il permesso» protestò prontamente il bibliotecario «per cui io non porto via un bel niente: le biblioteche sono fatte di libri.»
«Shakespeare, chi era costui?» disse a mezza bocca l'assessore.
«No, quello è Carneade, mi scusi» lo corresse il bibliotecario. «Ma non finisce qui» minacciò l'assessore, questa volta con voce tradita da un certo affanno.
E venne la prima estate della biblioteca nuova e anche l'effetto serra era nuovo, teso com’era a proteggere dal vento non più broccoli e polli ma migliaia di libri la cui polvere, levandosi leggera nell’aria, regalava ai lettori un nonsoché di decadente, un sentore di filtro magico che li faceva sprofondare nelle ragnatele dell'Ottocento, in qualche trama oscura e romantica.
E al varco c'erano i primi acari e altri ne sopraggiunsero, a milioni, richiamati dal caldo banchetto:
«L’è carta non l’è merda!» esclamò felice il primo acaro con un insolito accento padano. E giù tutti a mangiare.
I guai per gli acari vennero quando presero ad assediare le tragedie di Shakespeare. Averlo saputo si sarebbero buttati sul saggio d'arte di un certo Sgarbi (non avrebbe protestato nessuno vero), ma Shakespeare si rivelò un osso duro, non resse l’affronto: in un batter d’occhio trasformò tutte le parole delle sue tragedie in suoni così acuti e lancinanti, da svegliare e aizzare contro gli acari le parole degli altri 15.000 volumi.
Dovettero scappare in ritirata gli acari, ma se ne stavano sempre in agguato, aspettando un momento di debolezza del gran capo Shakespeare. E così fu. Shakespeare, un bel giorno, si stancò di stare in trincea vigile e attento, lui già stanco del peso delle sue tragedie, lui che riposava ormai nel fatale marmo che aveva immaginato per Giulietta.
Ma fu Galileo Galilei, lo scienziato che riscuoteva più credito nella notte dei libri, a correre in soccorso di Shakespeare recandosi in sogno al bibliotecario:
«Per vincere gli acari non c’è che l’aria condizionata,» gli suggerì «ma stai attento, potrebbero andar via gli acari e sopraggiungere i corvi.»
Il bibliotecario si svegliò trasudato: «I corvi... chi potevano essere i corvi? Galileo certamente alludeva: di corvi veri nelle biblioteche in fondo non se ne erano mai visti.»
Passarono gli anni e finalmente iniziarono i lavori per l’aria condizionata. La biblioteca chiuse. Sarebbero bastati tre mesi, si disse. Trascorse un anno. I lettori sollecitavano la riapertura. Ne sarebbero trascorsi tanti di anni se il bibliotecario (altro colpo di mano) non avesse preso l'iniziativa di risistemare la biblioteca e di riaprirla nonostante i lavori a rilento, per non dire fantasma, largamente finanziati dalla Regione; nonostante soprattutto l'indifferenza dei cosiddetti maggiorenti.
«Vedrete che con l’arrivo dell’estate avremo l’aria condizionata» assicurava ancora speranzoso il bibliotecario ai lettori.
«Che bello, invece di andare in vacanza verremo a goderci il fresco della biblioteca.»
«Vedrete,» insisteva il bibliotecario «vedrete.»
Ma arrivò l’ennesima estate che segnò l’arrivo dei primi acari, i quali chiamarono i secondi, che avvertirono i terzi. In breve milioni di acari affollarono la biblioteca e come prima, più di prima, banchettavano allegramente nelle calde pieghe dei libri.
E il bibliotecario andò dal sindaco, e andò dall’assessore, andò dall’architetto, dal geometra, dal ragioniere, dalla ditta, andò dal segretario. E andò.
«Ci sono gli acari! correte, fate presto, non si può...!»
«Non si può che cosa?» intonarono tutti in coro.
«No… volevo dire... c’è Shakespeare che... poi Galileo Galilei... Si tratta dei corvi, ha detto che bisogna stare attenti ai corvi, che sono più pericolosi degli acari.»
«Galileo Galilei che cosa? i corvi?
«Mi è venuto in sogno...»
«Ah, bene, bene, ti è venuto in sogno il Galilei eh?» disse l’architetto arredatore degli spazi vuoti.
«Non ha bisogno costui forse di qualche assistenza?» suggerì l’assessore, ma sottovoce, con discrezione.
«Sì, ci sono fior di professionisti nei centri mentali della nostra città» confermò il sindaco.
«I libri soffrono» continuava a ripetere il bibliotecario «e soffrono anche i lettori: sudano, a volte sudano e bestemmiano. Shakespeare invece piange, non ne può più di tragedie quel poveretto. Sul tardi poi si leva sempre un caldo afoso, con finti temporali, e arrivano gli acari, arrivano in massa, milioni di acari, banchettano. Da libri come quello di Sgarbi non ci vanno vero: ce l’hanno con Shakespeare, per loro è come il caviale. Se ne fanno gioco gli acari, tanto che neanche Otello ormai è più geloso della sua Desdemona... non ha la forza neppure di far cadere il fazzoletto... fazzoletto... fazzoletto...»
E così i corvi presero a banchettare con gli acari. E tutti rimasero felici e contenti e nui nu’ ìppime gnenti.*
da Cronache afose, Agosto 1995



* Non avemmo niente (dialetto salentino).
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A 50 ANNI DALLA CONSACRAZIONE DELLA CHIESA DI COLLEMETO E DI DON SALVATORE: LE MIE ORIGINI DEL SACRO


Torno ogni estate a Collemeto. Non nascondo che col
tempo il viagg
io si fa sempre più lungo, più faticoso: ti pare di non arrivare mai. Ma per nulla al mondo rinuncerei a quegli attimi di commozione che ogni volta mi prendono, quando, nei pressi della casa cantoniera, sulla Lecce-Gallipoli, il mio sguardo coglie la sommità delle case bianche in mezzo agli ulivi, e su tutto svetta la chiesa col suo campanile asimmetrico, il simbolo del mio paese.
Il ritorno è bello ed anche amaro a volte. Ci sono cose che hai lasciato e che non trovi più. Il paese va avanti, si trasforma, cambia; i luoghi della tua infanzia spariscono man mano; tanti volti di persone care non ci sono più; altri si affacciano, sempre più numerosi, tanto che a volte hai come l'impressione di essere un estraneo nel tuo paese.

Io, nel mio egoismo, vorrei magari che tutto restasse come prima, fermo a quel giorno lontano di 35 anni fa, quando un furgone mi strappò via per altre terre più feconde. Ma questo pensiero, lo so, è il difetto di tutti gli emigranti, ed io non sono da meno.
Una cosa che non cambia mai però c'è, e se ne sta lì immobile, maestosa: è la chiesa. È grande la chiesa, la più grande del mondo… a guardarla con quegli occhi di quand'ero bambino, allorché le cose reali sfumavano nell'immaginario e spesso, come in tutti i bambini, assumevano dimensioni fantastiche, gigantesche.
È che io sono cresciuto con la chiesa; io e la chiesa siamo nati insieme, e insieme stiamo invecchiando. Mi conforta sapere che il giorno in cui non ci sarò più, lei sarà sempre lì, con la sua maestosità, testimone della storia di un paese e delle piccole storie di ognuno di noi, che, intorno a lei, abbiamo vissuto, sofferto ed amato.
Il tre marzo 1949, quando sono nato, la chiesa della Madonna di Costantinopoli di Collemeto, dopo anni di attese, di solleciti e speranze, era pressoché ultimata; mancava solo la sua consacrazione, che sarebbe avvenuta di lì a poco, nel successivo ottobre dello stesso anno.
Il nuovo parroco, don Salvatore Nestola, da poco succeduto a quel don Salvatore Meli che fu l'artefice della costruzione, non aspettò tuttavia la consacrazione per mettere in funzione una struttura che tutti aspettavano… comu anime sante, per dirla come si dice da noi. Egli non si fece tanti scrupoli nel mettere già in funzione il fonte battesimale in marmo pregiato, posto allora all'inizio della navata sinistra.

Bene, io sono stato tra i primi ad essere stato battezzato nella chiesa nuova, e i cinquant'anni della sua storia sono anche i miei, e mi sento di condividere le celebrazioni di un evento che considero storico per la nostra sia pur piccola Collemeto. E poi, la storia, non siamo noi a farla? Non siamo anche noi protagonisti della storia, oltre a re e regine, principi e baroni?
Una chiesa, meglio dire una chiesetta, c'era a Collemeto. Stava (ci sta ancora) alla periferia del paese, sulla via che porta a Galatina. Ma il paese era cresciuto, alla messa della domenica la gente si accalcava fuori, in piedi. Soprattutto era una cappella privata che apparteneva ai Mongiò, e la gente di Collemeto aveva necessità di una chiesa tutta sua, una chiesa che le desse quel senso di identità e di appartenenza che ha ogni comunità che si rispetti. D'altronde, non erano proprio i greci che, nel fondare una città, innalzavano dapprima il tempio e poi le abitazioni? Questo per dire che è innato il bisogno di ogni comunità di ritrovarsi in una struttura che fosse il simbolo della propria fede, delle proprie aspirazioni, della propria vita collettiva.
Mi chiedo a volte cosa sarebbe stata la vita di noi ragazzi senza quei riti che in chiesa scandivano la nostra vita quotidiana, specialmente la domenica. Eravamo in tanti, allora, a servire messa; non c'era famiglia che non avesse in casa un suo chierichetto. Indossavamo una cotta bianca su una tunica rossa, colori che ci facevano un po' cardinali in erba. Le messe e le altre funzioni serali avevano riti liturgici che non s'imparavano tanto presto. Diventava un onore allora saper rispondere, anche se in un incerto latino, a don Salvatore, e muoversi con disinvoltura sull'altare al cospetto di una chiesa affollata, rispettando i dettami della liturgia.
A volte si era talmente tanti che il gradino più basso dell'altare non bastava a contenerci tutti inginocchiati. Sicché ci si faceva largo a botta di spinte, come fosse un gioco. Non mancavano situazioni comiche anche, che scaturivano da errori e disattenzioni del solito chierichetto ingenuo. A volte bisognava chiudersi le labbra a forza con le mani, per non scoppiare dalle risate. Poi il riso contagiava tutti, ed era un fuggi fuggi generale in sacrestia. E don Salvatore, con santa pazienza, è il caso di dirlo, restava solo sull'altare a spostarsi il leggio o a versarsi l'acqua dall'ampollina, con grande disappunto dei fedeli, tutti a dire: "Ma cce mmaletucati quiddhi vagnuni!".
Ma non era solo un gioco fare il chierichetto, per quel che io ricordo. C'era anche la coscienza di partecipare a qualcosa di sacro e di misterioso insieme che non aveva spiegazioni, che non si svelava mai, e che forse era bello proprio per questo.
Ma era nel mese di novembre, soprattutto, che si consumava, col sacrificio della messa, il pensiero tragico della nostra gente. Per un intero mese le messe si celebravano alle quattro del mattino, quasi ad assecondare quella comune credenza di abbinare i morti al buio della notte. I parenti del defunto da suffragare arrivavano in chiesa con un ritratto, uno di quelli enormi appesi alle pareti delle nostre case. In mezzo alla chiesa si disponeva un vero e proprio catafalco con i quattro ceri agli angoli; davanti, in posa maiestatis, quel ritratto. Insomma si ripeteva lo stesso rito del giorno della dipartita. Così mi toccava fare le levatacce per servire messa, ma rivivo ancora la seduzione di quelle scenografie lugubri e barocche nelle stesso tempo, di quel coro femminile che eseguiva il dies irae con un'intonazione popolare, quasi danzante, a sdrammatizzare quasi quella sequenza che, nel canto gregoriano, vuole tutta la sua tragica solennità. E poi quelle note surreali e ansimanti di un organo consumato, eseguite da lu Ninu te l'organu, involontaria musica d'avanguardia che frusciava da chissà quali mondi lontani; e ancora quel profumo estasiante di vero incenso, che rivestiva di un magico alone le sagome d'intorno; e quel senso di commozione e di partecipazione che si respirava, non certo inutile per gente che, se aveva una vita di stenti, sapeva pur vivere di ataviche passioni e coltivava nobili sentimenti.
Non c'era cerimonia a cui non partecipassimo noi chierichetti. Oltre alle messe e alle funzioni serali, c'erano i battesimi, le cresime, i matrimoni, le processioni, i funerali. Per non dire che la domenica, dopo la seconda messa, si andava in giro per le case a farsi donare una punta d'olio per la lampada del Sacramento; prima della Pasqua poi si accompagnava don Salvatore a benedire le case. C'era una gara tra noi per stare nelle cerimonie, come se la partecipazione al rito desse un senso al nostro quotidiano, al nostro essere ragazzi del più anonimo paese d'Italia.
Non nascondo che, a distanza di tempo, questo attaccamento al rito mi è rimasto. Il sacro, a mio giudizio, si trova in tutte le cose che guardiamo e tocchiamo. Io l'ho imparato in chiesa, in quella liturgia dei gesti, delle parole e dei suoni che trasformavano e rendevano grande e glorioso tutto ciò che mi circondava. Non abbiamo, oggi più che mai, bisogno di riti, ora che gli ideali collettivi sembrano scomparsi? Ora che ognuno di noi si è rintanato nelle proprie case a coltivare stupide solitudini e interessi particolari?
A proposito del campanile, ho un ricordo che qui non voglio tralasciare. Tutti sanno che prima, di campanili, ce n'erano due. L'altro fu abbattuto da un fulmine, esattamente in un tardo pomeriggio del 31 gennaio del 1962. Questa data non l'ho mai dimenticata, perché, accanto al danno del campanile, un'altra tragedia fu evitata, e molti dissero che si trattò di un miracolo. Quel giorno, a quell'ora, io ero seduto alla mia scrivania, a studiare, nel seminario di Nardò. Faceva brutto tempo, ed ecco, all'improvviso, un tuono, ma un tuono così forte che io e miei compagni restammo a bocca aperta, quasi avessimo scampato un pericolo. In realtà, quel tuono si era abbattuto a sei km di distanza sulla chiesa di Collemeto, aveva frantumato un campanile ed era penetrato all'interno come un fuoco divoratore, bruciando e devastando perfino le strutture portanti.
Quella sera mia madre aveva fatto celebrare una messa a San Giovanni Bosco, del quale era devota. In chiesa aveva portato anche i miei fratellini. La messa in realtà era stata talmente disturbata dal maltempo, con lampi, tuoni e continue interruzioni di corrente, che don Salvatore decise di tagliar corto con le preghiere finali e mandare via i fedeli in tutta fretta. Questi, uscendo, avevano appena varcato la gradinata d'accesso che… eccoti il fulmine! Per mia madre fu un miracolo di san Giovanni Bosco. Mi raccontava pure che per la larga strada del paese rotolavano come delle grandi palle di fuoco. Un fulmine insomma che equivaleva a un terremoto. Certo, quella sera qualche presentimento deve avere attraversato don Salvatore: ci sarebbe stata una strage altrimenti.
Ecco, io ho un sogno: il ripristino del campanile abbattuto. Mi piacerebbe che la chiesa riprendesse la sua facciata simmetrica che aveva una volta.
Rispetto a tutte le chiese del Salento, che sono pur belle e barocche, la nostra chiesa si distingue per uno stile insolito. Richiama tanto (ma più quando c'erano i due campanili) certe chiese di missioni lontane, per lo più latino americane, che la fanno sembrare quasi un avamposto di terre colonizzate, ancora da convertire, dandole quell'aspetto esotico che la fanno unica. Tra l'altro è una delle ultime chiese ad essere stata costruita con i classici criteri di un tempo, di gusto classico, un gusto che non muore mai, fuori com'è da ogni moda.
La nostra chiesa infatti è lì, è lì da sempre, come se ci fosse sempre stata, non sapresti dire neppure quanti anni abbia. La sua presenza, la sua eterna giovinezza è il contraltare della nostra caducità, ma anche l'emblema della capacità degli uomini di modellare con le proprie mani i sogni e gli eventi della vita; quel desiderio di eternarsi e di sconfiggere la morte.
Voglio spendere ora poche righe per don Salvatore, che ci ha lasciato giusto qualche anno fa. Avrebbe meritato, a questo punto, di vivere qualche anno di più, per godersi la festa del cinquantenario. Dico questo perché la storia di don Salvatore è la storia della chiesa: i muri, le volte, ogni angolo della chiesa, ogni pietra, tutto parla di lui.
Don Salvatore era una persona colta, discettava di greco, latino e teologia con estrema familiarità. Lo era in un paese dove ancora regnava l'analfabetismo. Lui fin da subito scese dal suo piedistallo, non amava accomunarsi a gente di potere, né approfittarsi del prestigio sociale di cui un prete allora godeva. Rimase quel figlio di contadini che era e preferì confondersi con gli umili, semplice tra i semplici. Non era raro trovarlo infatti in osteria a bere e a giocare con chi aveva speso un giorno di duro lavoro. S'intratteneva spesso nelle case, per strada a dare consigli, a risolvere situazioni di famiglie disagiate. Quante volte l'abbiamo visto parlare e scherzare in piazza con gente che provava anche a canzonarlo. Lui non si offendeva mai, sapeva anche ridere di se stesso. Era un uomo pacifico, ma sapeva all'occorrenza essere severo: non sopportava che della gente, per esempio, frequentasse la chiesa per motivi estranei alla fede, e non era raro che la rimbrottasse direttamente dall'altare. Era un uomo alto, slanciato, i suoi passi per strada erano falcate: fu così che nacque il detto affettuoso Papa Tore cu 'nnu scancu essi fore, detto che è entrato nella storia del nostro folclore.
Quando il giorno era finito e tutti tornavano a godersi il tepore familiare in attesa della notte, don Salvatore si ritirava nella sua canonica. La finestra della sua camera si affacciava su Piazza Italia. Quante volte, passando, abbiamo intravisto le fessure di luce dietro gli scuri: don Salvatore aveva ripreso le sue letture classiche, che, insieme alla fede, dovevano essere una buona panacea per le sue notti solitarie. Forse, anche sulla notte tarda, lui era ancora lì, a vegliare sul gregge che gli era stato affidato. Qualcuno, pensando alle fessure di luce, si sarebbe rivoltato tranquillo nel letto, come a sentirsi protetto.
Don Salvatore non era un santo, se per santo s'intende lo star rintanato a pregare e a meditare, isolato dal mondo. A lui mi piace pensare come a una presenza importante, come a un compagno di viaggio che ha segnato le tappe della nostra vita. Non mancava certo di qualche difetto: anche lui aveva le sue debolezze. Ma proprio per questo ha impersonato una umanità vera, sincera, proprio per questo era possibile entrare in familiarità con lui, stargli vicino senza remore, senza soggezione alcuna.
Erano anni in cui i nostri genitori, gravati da tante fatiche, non avevano molto tempo per la nostra educazione. Don Salvatore ha saputo tenerci raccolti, ha saputo educarci. Forse oggi non ce lo ricordiamo, ma sicuramente ci sono dei valori nella nostra vita che ci derivano dai suoi insegnamenti.
C'è un episodio che testimonia da che parte stava don Salvatore. Un giorno, a servire la messa al matrimonio della figlia di un ricco signore di Santa Barbara, si portò appresso una banda numerosa di chierichetti. C'ero anch'io tra questi. Dopo la cerimonia fu offerto un sontuoso rinfresco in una grande sala. Noi tutti a bocca aperta di fronte a tanto sfarzo e leccornie da gustare. Stavolta non si trattava più di rotolarsi per terra per raccattare i confetti lanciati sugli sposi, come si usava a Collemeto. Don Salvatore pretese un posto a sedere per ognuno di noi che, privi di abiti adeguati per l'occasione, ci salvammo lasciandoci addosso le vesti di chierichetto. Con poca dimestichezza nell'uso delle stoviglie, capitò che uno di noi ruppe un pregiato piatto di porcellana. Ci furono delle rimostranze per questo, ma don Salvatore intervenne in nostra difesa, a difesa della nostra disarmante semplicità, e non poteva essere un piatto rotto a rompere l'incantesimo che stavamo vivendo.
Personalmente, a don Salvatore, se penso al mio corso di studi, devo pure qualcosa. In seminario non nascondo che ero un tipo ribelle, non soffrivo certa disciplina fine a se stessa, di ogni cosa volevo farmene ragione. L'ultimo anno (ne avevo 16) rischiai l'espulsione, col rischio di perdere esami ed anni di studio. Quale mio parroco, don Salvatore fu convocato per essere informato del provvedimento. Lui, al cospetto del rettore, allargò le braccia come per sdrammatizzare: "Ma non è un cattivo ragazzo … è solo vivace… io lo conosco… ha preso da suo padre!".
Il giorno del suo funerale, nella calca della chiesa c'ero anch'io. Se pure in fatto di fede ho coltivato negli anni un certo scetticismo, quel giorno non potevo mancare. Degli oratori si avvicendavano al microfono per rendere le loro testimonianze. Ero lì per lì per farlo anch'io, ma sono stato trattenuto da un moto interno di commozione. Forse sarebbe bastato dire a tutti: "Don Salvatore appartiene alla storia di Collemeto, di noi qui presenti e di quelli che verranno. I muri di questa chiesa non smetteranno di parlare di lui, un uomo che a tutti ha regalato un sorriso e una di quelle pacche sulle spalle come solo lui sapeva dare". Ecco, le belle pacche di don Salvatore era l'ultima cosa che avrei voluto dire.
Civita Castellana, 12 ottobre 1999
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IL BAMBINO DAI BEI* OCCHI CHIARI

È una storia di circa venti anni fa, quando la biblioteca si trovava al primo piano del Palazzo Andosilla, all'inizio di Via Roma (oggi Via SS. Giovanni e Marciano). Vi si accedeva da un cortile il cui ingresso era sbarrato da un enorme e sgangherato portone. Era, mi pare, un primo pomeriggio caldo di fine giugno, l'ora in cui i bambini che abitavano nei paraggi, approfittando del poco traffico e della pennichella dei genitori, davano sfogo ai loro liberi giochi sotto casa schiamazzando e rincorrendosi per le vie, azzuffandosi e, perché no, facendo un salto in biblioteca. Toccava vederli, dopo aver fatto le scale di corsa: mi si presentavano davanti con tanto di fiato, il viso e i capelli grondanti sudore.
Erano piccoli, al massimo sette-otto anni, e il loro scopo non era proprio quello di fare ricerche o leggere, ma tuffarsi tra i loro libri, trovare il più bello e colorato e contenderselo al grido di l'ho visto prima io!, tirandoselo ognuno dalla propria parte. E sempre mi toccava intervenire per dirimere le questioni e assicurarli che di libri ce n'era per tutti. E si portavano via i libri in prestito, ma per loro era come aver vinto un giocattolo alla riffa, e scomparivano rotolando per le scale, se non addirittura scivolando dal parapetto in muratura con gran chiasso. Io, dalla finestra, più che i ragazzi, fissavo trepidante quei libri che brandivano in mano come trofei: chissà, speriamo bene, mi dicevo: che li leggano almeno!
Ma ci fu un primo pomeriggio, un primo pomeriggio assolato di fine giugno, che non dimenticherò mai, e il cui ricordo ancora mi strugge. Ero lì a ticchettare sulla vecchia macchina da scrivere, quando un vociare in cortile mi preannunciò il sopraggiungere della solita banda di ragazzini. Dalle scale mi arrivavano voci concitate. Sentivo un "Dài! sali! cammina! mo' so' cavoli tui!" Ancora: "Così te 'mpari, mo' je lo devi pagà se no te dà un sacco de botte!"
Storie di bambini, pensavo, continuando nel mio ticchettio, e non m'ero accorto che la banda era già sopra, nel mio ufficio, e… "Eccolo! eccolo! nun voleva salì! Te l'avemo portato: fatte dì che ha combinato!"
Alzai la testa e la scena che mi apparve era a dir poco insolita: un bambino braccato tenuto a forza per le braccia da due più grandicelli; un terzo gli stava dietro per trattenergli ogni via di fuga.
"Fatte dì, fatte dì che ha combinato!" insistì quello che dava l'idea del capobanda indicandomi il piccolo malcapitato "Mo' tocca che paga un sacco te sordi" finì per sentenziare.
Ma, sinceramente, non diedi molto ascolto a quelle accuse o minacce profferite; fui attratto, invece, da quel bambino che, simile a Pinocchio, se ne stava come fra due carabinieri in erba. La faccia scura e spaurita faceva risaltare i due occhi chiari e luminosi che mi fissavano dal basso in alto come a chiedermi pietà. E mentre i compagni continuavano a sbraitare, lui se ne stava muto, come rassegnato a subire qualsiasi pena gli sarebbe stata inflitta.
"Lasciatelo stare!" ordinai. I ragazzi ubbidirono. Il bambino, stranamente, non approfittò per darsela a gambe, ma restò lì, in silenzio, a fissarmi con i suoi bei occhi chiari.
"Insomma volete dirmi che è successo?"
"Ha stracciato il libro della biblioteca e l'ha spiaccicato pe' terra!" assicurarono all'unisono i piccoli carabinieri.
"È vero che hai stracciato il libro?" chiesi al bambino scrutandolo in quegli occhi smarriti e regalandogli un mezzo sorriso. Ma lui niente.
"Adesso voi uscite dalla stanza!" intimai agli altri "Me la sbrigo io con lui."
"Guarda che se mi dici che hai stracciato il libro, non ti faccio niente, sai? Sono cose che possono capitare. La prossima volta magari cercherai di stare più attento, così il libro lo legge anche un altro bambino" lo rassicurai piegandomi all'altezza dei suoi occhi.
"Lo hai stracciato?" ripetei, e finalmente mi fece cenno di sì con la testa.
"Allora torna a casa, riportami il libro e così vediamo di ripararlo in qualche modo. Vai! Io ti aspetto qui." Fu un attimo: si voltò e se la diede a gambe; dai vetri della finestra lo seguii mentre si precipitava per le scale e scappava lungo il cortile. Conoscevo quel bambino, era venuto altre volte, stava di casa a Via del Governo Vecchio.
Aspettai invano. In genere, quando un libro non torna, mi cruccio, per non dire altro. Quella volta, però, non so perché, non mi davo tanto pensiero: come se quel bambino, braccato a quel modo e con quella faccia così spaurita, avesse pagato il suo prezzo.
Trascorsero tre lunghi giorni assolati, poi, improvvisamente, un tam tam, una notizia ferale che sconvolse la città: due bambini avevano perso la vita scivolando in una marrana, mentre giocavano dalle parti di Fontana Quaiola. Uno di loro era proprio il bambino di Via del Governo Vecchio.
Oh potesse tornare un giorno quel visetto scuro dai bei occhi chiari: lo colmerei dei libri più belli e colorati, sia pure col permesso di stracciarli o gettarli per terra o macchiarli…


* Davanti a termine che comincia con vocale, "bei" dovrebbe essere "begli"... ma mi suona meglio "bei": licenza!

Civita Castellana, giugno 2004

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