sabato 12 gennaio 2008

MIEI INTERVENTI E RECENSIONI PER LIBRI E MOSTRE

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L'UNIVERSO FEMMINILE NELLE OPERE DI ANNA DEMYTTENAERE

(In occasione della mostra d'arte tenuta da Anna a Roma presso l'Ambasciata belga)

Un ramo di verdi ulive pende carico sulla terrazza di Anna Demyttenaere in quel di Calcata, un antico borgo del Viterbese arroccato su di una rupe tufacea.
E' il simbolo più mediterraneo di quell'Italia che da anni rappresenta il "bel viaggio" di Anna, quell'Italia che con tutte le sue contraddizioni si fa spesso odiare ma anche segretamente amare, quasi donna fatale.
Sarà perchè viene da un plat pays, il Belgio di Jacques Brel, paese troppo rassicurante forse, che Anna ha voluto inseguire l'ingannevole ma libero canto delle sirene, piuttosto che il tedio della "quieta" borghesia.
Sirena essa stessa, prigioniera di armoniose fattezze nordiche da tela fiamminga, non le è stato facile rincorrere forme di comunicazione che rivelassero al tempo stesso un corrispettivo interiore.
Lo ha fatto e lo fa nella pittura, associando simultaneamente, sulle orme di Paul Klee, il razionale all'irrazionale, il conscio all'inconscio. I suoi dipinti, sotto un'apparente ingenuità, celano in realtà un giudizio sulla condizione umana, rappresentano le brutture di un mondo "progredito" sullo sfondo di colori a volte infernali, altre volte tenui e rasserenanti, ad indicare speranze e sogni che possono avverarsi.
Lo rivelano alcuni quadri il cui soggetto è esplicitamente VIA CRUCIS. Altro non sono quelle automobili incolonnate come processionarie nell'inferno urbano, testimoni dell'assurdità di un tributo che l'uomo paga a una civiltà che è civiltà disumana.
Ma questo è potuto accadere anche perché la macchina è venuta a simboleggiare per l'uomo il prolungamento della propria virilità. Non per niente le automobili di Anna sono sormontate da un unicorno, quasi a dotarle di una caratteristica maschile, con l'abitacolo che diventa un utero, perché si muove, è chiuso. Siamo al maschio come aggressività, negazione del sogno, del bello.
Quando agli albori dell'umanità l'uomo smise di essere nomade, prese a recintare le femmine degli animali per controllarne la prolificità. Fu così che il caprone divenne il dio-caprone. Questo spiega, secondo Anna, perchè poi anche le donne subirono la stessa sorte, relegate in casa e a far figli ai voleri dell'uomo.
Eppure era considerato un corpo magico prima quello della donna. Il suo pancione simboleggiava il grande valore della nascita e della vita che si portava dentro. Poi donne e bambini, come parti deboli della società, furono confinati in ruoli secondari. Alla nuova religione del maschio si opposero le Amazzoni: l'inizio di quella resistenza femminile che dura da secoli.
Il discorso cade su di un altro soggetto caro ad Anna: l'erotismo. Sono figure dai colori vivaci ritagliate su fibre di legno che riescono a stare in piedi grazie a un gioco di incastri che danno un'illusione scultorea. E' un susseguirsi di amplessi, ma non da manuale, dove l'amore è visto invece come un gioco, come gioia, come tenerezza. Non c'è spazio per masochismi o sadismi vari, ma neppure a quella routine quotidiana che spegne il rapporto d'amore. Anche qui la donna, per Anna, gioca un ruolo positivo. Infatti mentre nella donna il desiderio sessuale è provocato soprattutto da un'assenza di subordinazione all'uomo (un erotismo legato alla parità quindi), nell'uomo invece è scatenato troppo spesso dal corpo nudo della donna scambiato per un oggetto.
E' un universo al femminile insomma che non smette di estendersi ai quadri dell'ULTIMA CENA. Qui il sacrificio di Cristo ha la sua apologia nel tradimento dei discepoli che non mancano nel rituale di bere il sangue del loro Dio. E' un sacrificio che è espressione di un mondo violento da cui non può scaturire la "Redenzione", e non è un caso che i protagonisti di questo rito siano maschi.
E non poteva non suscitare emozioni in Anna il gioco del Badminton, una novità delle Olimpiadi del 1992. Qui graziose e snelle fanciulle sembrano disegnare un intreccio di traiettorie fino a comporne un ricamo geometrico. E' un omaggio a un gioco di donne, un inno al volo, alla danza, alla gioia, alla femminilità quindi.
E non mi stupisce che Anna si sia divertita anche con Coppa America '92 (dipingere, ammette, è divertirsi prima di tutto), per quell'amore che Anna nasconde per il mare. Nei colori celeste-azzurro bleu che dipingono il mare, si frastagliano geometrici cristalli in mezzo ai quali scivolano, come viste dall'alto, le due barche di Coppa America. Sono come amanti solitarie che gareggiano a rincorrersi tra i flutti e senza di loro vano sarebbe il vento che le fa danzare o l'aria che accarezzano fragorosa e il sole che ne prolunga i riflessi sull'acqua, la vita che rincorrono e che vincono senza il fragore delle armi.

Alfredo Romano - 1993

Desiderosa di un testo che parlasse
della mia opera e di me in quanto essenza di essa.
Desiderosa di un testo non gergale fatto
da qualcuno che mi conoscesse da tempo e che
mi volesse bene.
Ho chiesto ad uno scrittore di fare la
presentazione dei miei ultimi lavori.
E' la prima volta che Alfredo Romano
scrive sull'opera d'arte.

Anna Demyttenaere

Anna Demyttenaere è nata a Renaix, in Belgio, dove a tirare l'aratro erano giganteschi cavalli brabançons.
Studi classici in Belgio e in Inghilterra. Comincia molto presto la sua scuola d'arte frequentando studi di artisti di fama consolidata.
A Bruxelles: Aubin Pasque (surrealista), Marcel Astyr (l'ultimo impressionista), Jo Delahaut (astratto) e Joan Marti.
A Madrid: Justo Barbosa e Anabel Martinez.
A Roma: Mario Schifano, Nicolas Carone, Elio Costanza, Emanuel Herzl, etc.
A Calcata: Costantino Morosin.
Negli anni 70, tra Roma e Calcata, produce opere che vengono acquistate da collezionisti tra i quali: Roberto Rossellini, Mario Lanfranchi e Lucio Mariani,
Nel 1979 torna a Bruxelles dove scrive una sceneggiatura finanziata dal Ministero della Cultura Belga.
Nel 1983 nasce suo figlio Jonas.
A Calcata nel 1985 riprende l'attività artistica realizzando maschere di cuoio e dedicandosi poi esclusivamente alla pittura.Il suo lavoro è attualmente seguito da Achille Bonito Oliva a Roma e dalla Galleria Isybrachot a Bruxelles.

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Sala conferenze Biblioteca Comunale di Civita Castellana. Intervento alla presentazione del libro di Gianluca Cerri e Paola Rossi "La Via Amerina e il suo paesaggio", edito dalla Biblioteca

Dico subito che è la prima volta che intervengo alla presentazione dei libri editi dalla biblioteca. Giunti al quinto volume della collana Ninfeo Rosa, colgo l'occasione per fare il punto sull'attività editoriale e tentare di tracciarne qualche linea programmatica.
Della collana sono il responsabile, ne curo le bozze, l'impaginazione, la grafica. Alla
I volumi sono tutti forniti di ISBN, che è quel numero che identifica il libro in tutto il mondo. Il libro così finisce su tutti i cataloghi nazionali e internazionali e naturalmente anche nelle librerie virtuali di Internet: l'italiana Internet Book Schop, ricca di 300 mila volumi, e l'americana Amazon.com con un milione e mezzo di titoli. I nostri volumi si possono rintracciare digitando il nome dell'autore, oppure della collana o dell'argomento, o anche della casa editrice che, nel nostro caso, è Civita Castellana.
Questo spiega perché i nostri libri, per gli argomenti che trattano, sono richiesti in Italia e nel mondo. Ci sono piovute ordinazioni non solo da privati ma anche da università italiane e straniere.
Un libro all'anno non è molto per una casa editrice (e già perché la biblioteca sta sul catalogo degli editori), ma è tanto per una biblioteca che deve gestire un patrimonio con più di 20 mila volumi, centinaia di periodici, tanti libri in arrivo, tanti altri che ci vengono donati (perfino da Goteborg in Svezia), il lavoro di informatizzazione, l'archivio, i rapporti col pubblico e con le scuole, l'amministrazione, la gestione della sala delle conferenze e via discorrendo.
Ma sia pure un volume all'anno, col tempo stiamo portando alla luce temi e argomenti che arricchiscono il patrimonio culturale di questa città. Perché oltre a trattazioni di argomento attuale, come il libro sulla ceramica, frutto di ricerche del Cnr, sono stati affrontati anche temi della nostra storia, della lingua e delle tradizioni popolari, e, ultimo, della via Amerina e il suo paesaggio.
La nostra responsabilità sta via via crescendo, perché, dopo aver sfornato libri tutti di un certo interesse, e in una veste presentabile, non possiamo più tirarci indietro, anzi c'è solo da migliorare. Siamo convinti che questo modo di lavorare con silenzio, pazienza e costanza, non darà riscontri immediati, ma li produrrà nel tempo. Sappiamo che il nostro lavoro resterà, e saranno soprattutto le generazioni a venire a trarne giovamento e a doverci ringraziare. Una comunità che si rispetti deve avere gli strumenti per sapere chi è e da dove viene, e i libri sono come uno scrigno che conserva l'identità di un popolo, sono l'eredità del sapere e della vita degli uomini che ci hanno preceduto, attraverso di loro possiamo prendere coscienza del nostro posto nel mondo.
Premesso che pubblicare più di un libro all'anno costituisce per noi un'impresa, voglio qui spezzare una lancia per alcuni volumi che da anni attendono di tornare alla luce. Sono opere che costituiscono le tracce della memoria storica di Civita Castellana, sono opere antiche, dimenticate. La biblioteca in questi anni si sta occupando della loro trascrizione in videoscrittura: si tratta di testi manoscritti di non facile lettura a volte. Se finora non sono stati pubblicati è perché essi hanno bisogno, per questo, di un adeguato apparato critico di note e commenti, senza i quali non potrebbe esserci una corretta comprensione.
Per fare in modo che i manoscritti escano da questa specie di limbo, è necessario ricorrere a degli esperti che li prendano in esame, li interpretino, li sappiano collocare nell'arco del loro tempo, nel loro contesto storico, economico, sociale, religioso. A Civita non mancano studiosi a cui affidare incarichi di questo tipo, non escludendo neppure un compenso.
D'altronde, se si paga un architetto per il progetto di una scuola, perché non fare altrettanto con uno studioso per il progetto di un libro? Siamo ancora al Litterae non dant panem? Oppure alla stupida divisione tra sapere scientifico e letterario, quando invece l'uno e l'altro sono due facce della stessa medaglia che è l'uomo?
I libri di cui vi parlo sono quattro.
Il primo è lo statuto di Civita Castellana, un'opera che costituisce un pilastro per la nostra storia. Fu compilato tra il 1471 e il 1484, approvato nel 1535, dato alle stampe nel 1566.
La copia integrale si trova nell'Archivio di stato a Roma; la nostra è priva di alcune pagine iniziali, di cui però abbiamo la versione in fotocopia, il resto è stato restaurato.
Poi c'è la storia di Civita Castellana del Pechinoli, scritta nel 500, di cui abbiamo la copia filmata. In realtà la sua trascrizione è già uscita per le edizioni dell'Ager Faliscus per la cura di don Giacomo Pulcini. Ritengo tuttavia che farne uscire una seconda per la collana Ninfeo Rosa della biblioteca, dotata di ISBN, con una impaginazione e una grafica secondo criteri editoriali più idonei, renderebbe per lo meno più visibile la storia del Pechinoli. Naturalmente si può partire dalla versione di don Pulcini, creando un'edizione riveduta e ampliata. Per questo si possono coinvolgere gli stessi esperti che vi hanno collaborato: penso alla prof.ssa Patrizia Fantera per esempio. Ben vengano, naturalmente altri contributi e collaborazioni.
Il terzo libro è del canonico Sante Pasquetti di cui conserviamo la storia di Civita Castellana, scritta nel 1841. Siamo entrati in possesso del manoscritto alcuni anni fa, faceva parte di un ex libris: ce l'hanno fatto pagare pure caro, ma credo sia valsa la pena. Di Sante Pasquetti abbiamo già sentito parlare nel libro di Giovanna Craba, il primo della collana Ninfeo Rosa. Era un prete con una storia molto singolare che, dopo tante traversie, alla fine della sua vita si mise a scrivere la storia di Civita Castellana. Alcuni sostengono che abbia scopiazzato qua e là. In ogni modo, scritto com'è in un'epoca così antica, non può che costituire un documento.
Ultimo, Oronte Del Frate, del quale abbiamo la copia del manoscritto. Anche qui c'è una storia di Civita Castellana scritta qualche secolo fa, che da tampo costituisce uno spunto per tante ricerche, anche qui in biblioteca. Come gli altri libri sopra, non si può stampare senza corredarlo di qualche nota.
Da alcuni anni a questa parte c'è un fiorire di studiosi che conducono ricerche e studi su Civita Castellana: alcuni sono nostri concittadini, altri vengono da fuori, soprattutto studenti per le loro tesi di laurea. A Civita Castellana due sono gli studiosi che, più di tutti, almeno da trent'anni a questa parte, sono stati il vanto di questo paese con le loro appassionate e a volte contrastanti ricerche. Parlo di don Giacomo Pulcini, che ci ha lasciato, e del prof. Cimarra.
Del primo, credo che prima o poi bisognerà organizzare una conferenza per ricordarlo e mettere in luce la sua giusta figura (Credo che l'Assessore Parroccini abbia già in mente qualcosa del genere); del secondo voglio ricordare che da anni si sta prodigando per dar luce, con pazienza e umiltà, pietra su pietra, al repertorio folklorico, vale a dire alle tradizioni popolari di Civita Castellana.
Cimarra è uno studioso che dovremmo coccolare, visto che in tutto il Viterbese ce lo invidiano: non c'è paese che non lo chiami per una collaborazione o per la presentazione di un libro. I suoi studi, non lo dico solo io, non solo sono di grande rigore scientifico, ma si accompagnano anche a grande passione e onestà intellettuale.
Del prof. Cimarra, questa biblioteca ha pubblicato il repertorio infantile civitonico, che tanto successo sta avendo anche fuori dalle mura cittadine.
Da tempo sta lavorando anche al repertorio folklorico adulto e al vocabolario civitonico. Quest'ultima, un'opera che si annuncia monumentale.
Al momento ha scritto, insieme col prof. Francesco Petroselli dell'Università di Goteborg in Svezia, il repertorio dei proverbi viterbesi, circa 5 mila, dei quali 2 mila sono civitonici. Anche questa è un'opera monumentale, ricchissima di note e commenti, frutto di anni e anni di ricerche. Il manoscritto è bell'è pronto.
Ritengo che la pubblicazione dei proverbi porterebbe lustro e giovamento a questa città e all'Amministrazione comunale che, da un'operazione culturale di questo genere, non avrebbe che da trarne vanto. Io me lo auguro di tutto cuore! tipografia si fornisce un prodotto editoriale già definito, in pratica una copia esatta del libro con relativo dischetto. Ciò ci permette una linea editoriale uniforme e confezionata secondo criteri personalizzati, e nello stesso tempo conformi a precisi standard internazionali.

Alfredo Romano

Civita Castellana 10/01/2000

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INTERVENTO SU DOMENICO MAZZOCCHI

BIBLIOTECA COMUNALE DI CIVITA CASTELLANA

SALA CONFERENZE

7/12/1993


Io mi sono già occupato di Domenico Mazzocchi otto anni fa sulle pagine dell'Informatore Civitonico. Il 1985 era l'anno europeo della musica e credetti doveroso rendere omaggio a un musicista a torto dimenticato, e dimenticato, haimé, anche nel suo paese natale. Ma si sa, il Nemo propheta in patria vale per tutti e vale quindi anche per Domenico Mazzocchi.

Mi sono imbattuto poi in Domenico Mazzocchi non tanto a Civita Castellana (non esiste qui nessuna traccia pubblica, né una lapide né una via; ci sono invece per il fratello Virgilio anche lui musicista) mi sono imbattuto, dicevo, in Mazzocchi negli studi sull'opera lirica attraverso la consultazione di un documento tedesco.

Per questo son dovuto ricorrere a un mio cugino emigrato in Germania (il poveretto studiava tedesco tra un mattone e l'altro), per farmi tradurre brani di un numero speciale di un periodico interamente dedicato a Domenico Mazzocchi.

Si tratta di Anaclecta musicologica pubblicato dall'Istituto Germanico di Roma nel 1970, gentilmente donato a questa Biblioteca Comunale dall'allora vescovo Roberto Massimiliani.

Credo che la storia della musica debba molto a Domenico Mazzocchi.

Grazie a lui il melodramma nel '600 subisce una svolta fondamentale, e se noi oggi possiamo godere lo spettacolo di una Traviata di Verdi o di una Tosca di Puccini o di una Cavalleria Rusticana di Mascagni, è perché un certo Domenico Mazzocchi, un bel giorno si alzò e disse: basta col tedio del recitativo!

Che intendeva dire il nostro con ciò. Torniamo un po' indietro.

Dovete sapere che nei primi del '600 Domenico Mazzocchi fu uno dei principali artefici della Scuola Romana

In Italia allora si chiamavano Scuole i grandi centri di produzione operistica. Ce n'erano a Firenze, a Mantova e soprattutto a Venezia che si si contendeva il primato con Roma.

L'opera. Quando oggi si dice l'opera non si intende né uno scritto né un qualsiasi prodotto artistico o artigianale. Quando si dice l'opera si intende l'opera per eccellenza e cioè l'opera lirica detta anche melodramma dal greco melos canto e drama azione, quindi significa muoversi sulla scena cantando.

Infatti si dice : andiamo all'opera, oppure oggi in televisione danno l'opera, intendendo con ciò soltanto l'opera lirica.

Ma perchè si chiama opera? Si chiama opera perché deriva esattamente dall'opera teatrale, qui i personaggi si muovono sulla scena parlando, parlando e basta, senza cantare. E' così un'opera di Pirandello o di Goldoni e così via.

Ad un certo punto della nostra storia però, siamo nel '500, i personaggi sulla scena di alcuni teatri invece di parlare, come comunemente si faceva, cominciano a dialogare cantando, ma non proprio un canto, qualcosa di mezzo tra il parlato e il cantato detto recitativo.

Nasceva così il recitar cantando.

Possiamo fare un esempio di questo recitar cantando immaginando un testo di teatro in cui ci sia questa specie di dialogo tra me e l'Assessore Ciarrocchi:

- Assessore che sei venuto a fare in questa biblioteca - E lui:

- Son qui perché voglio parlare di Mazzocchi

- Mazzocchi, ma che dici mai, è persona che non conosco - e lui:

- Sei l'unico a non saper di siffatto civitonico.

Ma che bisogno, direte voi, c'era di di trasformare in questo modo il testo di un teatro? Tra l'altro non è verosimile, insomma è come se nei nostri dialoghi quotidiani noi ci mettessimo a usare questa specie di canto-cantilena. Ci sarebbe da ridere.

Ma c'era una ragione per cui nel '500 si andò ad affermare il recitar cantando. Siamo in un periodo in cui grazie al Rinascimento si andava espandendo in tutte le arti un amore e quindi un ritorno al mondo classico.

Sicché anche in teatro entravano sulla scena soggetti mitologici popolati di dei e di eroi dell'antica Grecia e dell'antica Roma.

E allora, ci si chiedeva, potevano gli dei o gli eroi parlare come gli uomini? No, non si poteva immaginare che gli dei e gli eroi antichi parlassero come gli uomini, come gli uomini del '500, sarebbe stato come togliere loro quell'alone di leggenda che li circondava, sarebbe stato come smitizzarli.

Niente di meglio allora che farli esprimere in un linguaggio tra il parlato e il cantato.

Ma badate bene, questo far cantare i personaggi non è un vezzo, diventa una vera e propria esigenza.

Prendiamo L'Orfeo di Monteverdi, (Orfeo, quello di Euridice) laddove Orfeo ha il compito di scacciare le potenze infernali.

Ecco qui il canto non è solo un bisogno espressivo ma anche il mezzo più efficace al raggiungimento di tale scopo

Nei miei ricordi di chierichietto ricordo il parroco che per invogliarci a cantare ci ripeteva che chi canta prega due volte.

Evidentemente anche il Signore Iddio si lascia più facilmente commuovere da uno che canta piuttosto che da uno che parla, comunque nell'accezione comune il "pregar cantando" è più efficace del "pregar parlando" e il mio parroco, don Salvatore, aveva ragione.

Sicché per tanto tempo in tutta Italia, soprattutto a Firenze con la Camerata dei Bardi, assistiamo ad un'esplosione di rappresentazioni teatrali dove dei ed eroi si muovono disinvoltamente sulla scena cantando.

Questo fino al '600, fino a quando un certo Domenico Mazzocchi di Civita Castellana, comincia ad avere a noia queste specie di opere e parla di "tedio del recitativo".

Mazzocchi aveva proprio ragione. Immaginate voi di assistere ad uno spettacolo di due ore con quel fare cantilenoso che vi ho appena fatto sentire. Beh, dopo un po' si passerebbe ai bruscolini. E poi non è solo un fatto di noia, c'era anche l'esigenza di introdurre nell'opera lirica scene che non fossero solo tragiche, come era pacifico per soggetti mitologici, ma scene pur tragicomiche; c'era ancora il bisogno di forme musicali più composite, più ricche di abbellimenti, bisogni ed esigenze che poi erano avvertiti non solo nella musica ma anche in tutte le altre arti, non dimentichiamo che siamo nell'età barocca.

E che cosa propone Mazzocchi per rompere questo tedio del recitativo? Lui dice: perché non introduciamo delle arie nell'opera lirica?

Si tratta di spezzare ogni tanto il recitativo con delle canzoni. Si tratta di far fermar ogni tanto l'azione scenica, uscire fuori dal tempo, dal luogo e anche dalla stessa azione per un momento di pausa, una pausa lirica, di poesia, che fosse bella, ariosa come può essere una canzone.

Ecco, Domenico Mazzocchi fu il primo musicista nella storia della musica che compose un'opera, La Catena d'Adone, in uno schema fisso nel quale delle arie, inframezzate nel recitativo rompono proprio quel tedio di cui lui stesso parlava.

E questa invenzione del Mazzocchi non poteva che prendere subito piede, a tal punto che col tempo le arie presero il sopravvento sul recitativo divenendo sempre più numerose.

E noi oggi quando cantiamo brani di un'opera, quando li fischiettiamo
per la strada o mentre ci radiamo la barba, non facciamo che cantare proprio
le arie delle opere.

E' un'aria Di quella Pira nel Trovatore di Verdi, E' un'aria l'Addio del passato della Traviata oppure Là ci darem la mano nel Don Giovanni di Mozart, o Casta Diva Norma di Bellini, Lucean le stelle nella Tosca di Puccini. E non è un momento lirico anche il Va pensiero sull'ali dorate nel Nabucco di Verdi? nella

Attenzione però: l'aria, può essere bella quanto vi pare, ma non lo sarebbe senza quel recitativo che abbiamo definito un po' noioso, quel recitativo che poi è l'azione, lo svolgimento dell'opera. Perché, direte voi?

E' semplice: immaginate di avere un'opera fatta di sole arie, senza il recitativo, cioè senza l'azione. Ebbene sono sicuro che l'opera non piacerebbe a nessuno e poi non si potrebbe chiamare neanche opera.

Il motivo sta nel fatto che durante il recitativo noi stiamo in attesa dell'aria, la sospiriamo, non vediamo l'ora che arrivi e tutto questo crea tensione, sì che quando l'aria giungerà sarà come un'esplosione, un orgasmo se volete, e aggiungo: poesia.

Questa invenzione di Mazzocchi comunque portò molta fortuna all'Italia.

Fu proprio grazie alle arie che l'Italia divenne la patria del bel canto, la padrona incontrastata del melodramma il tutto il mondo

Non c'era corte europea nel '700 che non avesse teatri stabili italiani con musicisti di grande valore come Lulli, Cimarosa, Spontini, Salieri e altri ancora, musicisti che fondarono teatri nazionali a Parigi, a Vienna, a Mosca.

Grazie al bel canto anche il linguaggio della musica divenne italiano e lo è ancora oggi.

Divertitevi a sfogliare degli spartiti di musica francesi o inglesi o russi o ostrogoti che siano e vi accorgerete che tutte le notazioni come forte, piano, adagio, crescendo, allegro, da capo ecc. sono scritte tutte in italiano.

A questo proposito fu proprio Mazzocchi l'inventore di intensità sonore e di tempo, insolite per la sua epoca; a lui si devono anzi i segni di crescendo e decrescendo nella notazione musicale.

Potete voi comprendere quindi quale tappa importante è stato Domenico Mazzocchi nell'evoluzione della musica e quanto gli debba essere riconoscente chi ama la musica e quanto debba sentirsi onorata Civita Castellana per avere un figlio così illustre.

La sua Catena d'Adone venne rappresentata per la prima volta a Roma nel 1626 ma ebbe più fortuna a Bologna nel 1648 al Teatro degli Uniti.

Il libretto è del Tronsarelli. Si intende per libretto proprio il libretto dove c'è scritto il testo teatrale che viene messo in musica. Quindi il Tronsarelli ha scritto il testo e Mazzocchi ha composto la parte musicale. Nel melodramma questa è una consuetudine. Per la Catena d'Adone di Mazzocchi il Tronsarelli si ispirò al poema di Giovan Battista Marino che si intitolava appunto L'Adone.

Che cosa vuole essere l'opera di Mazzocchi: si tratta di una favola ambientata in un bosco, favola di argomento mitologico. Ebbene quest'opera non è importante solo perché ci sono queste arie che spezzano il tedio del recitativo ma anche perché dà l'avvio, sul palcoscenico, a scenografie grandiose con meccanismi complicati e suggestivi: vi appaiono giardini incantati, voci nascoste, grotte misteriose, fitte foreste dove risuona la voce dell'Eco, la quale Eco risponde alle parole di Adone, Adone simbolo della bellezza giovanile per eccellenza, Adone amante disperato, Adone amato da Afrodite di cui non può più godere gli amori perché ucciso da un cinghiale nel fiore dell'età.

Ha scritto altre opere Domenico Mazzocchi, come i Sonetti e Musiche sacre e Morali che avremo l'opportunità di ascoltare dopo domani nella Chiesa Cattedrale. Certo una qualche curiosità ci viene nell'immaginare la rappresentazione della Catena d'Adone.

Si potrà mai rimettere in scena la catena d'Adone? A Bologna ebbe molto successo, ma fu l'ultima rappresentazione. Era di meccanismi così complicati che oggi sarebbe molto difficile per non dire costoso rimetterla in scena.

Dovrebbero tornare forse i Mecenati di un tempo, quei signori pieni di soldi (anche se sappiamo accumulati grazie alle fatiche di altri uomini), ma che pur tuttavia si lanciavano in imprese che hanno dato attuazione alle opere dell'ingegno umano.

Il Mecenate di allora potrebbe essere oggi, che so, un imprenditore, una persona facoltosa.

Ma voi ve lo immaginate un ricco imprenditore, anche del luogo togliersi lo sfizio di curare la rappresentazione della Catena d'Adone? Meglio una nascosta villa al mare con piscina, una Ferrari da collezione, una settimana al Danieli di Venezia, un fuoribordo per traghettare in Corsica una volta all'anno possibilmente con mare forza zero, bonaccia assoluta, perché sennò finirebbe per ritrovarsi alle Colonne d'Ercole.

Alfredo Romano


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A proposito di IMMAGINE DEL DUBBIO, commedia in due atti composta dagli
studenti dell’Istituto Tecnico Industriale di Civita Castellana, rappresentata in
città ma anche altrove, come in Sardegna, dove ha ottenuto un buon successo
di critica.

POSTFAZIONE ALLA COMMEDIA L'IMMAGINE DEL DUBBIO

UN LAVORO A CALDO, FRESCO, GENUINO:
SA ANCHE DI LETTERATURA


Quello che più sorprende in questa commedia è la voglia dei ragazzi di rappresentarsi, mettendosi a nudo per questo, senza pietà a volte, fino a porci sul piatto un loro profilo di vita e di pensiero non si sa quanto reale, non si sa quanto assurdo. E che cosa, se non la commedia, il linguaggio della letteratura quindi, poteva dare dignità e onore al loro stile di vita? E perché non la voglia di divertirsi?

Si divertono infatti i ragazzi e faranno divertire, anzi susciteranno risate, tante. Rideranno soprattutto gli spettatori-studenti, rideranno di se stessi. Si identificheranno in quel loro gergo alla moda così intriso di luoghi comuni, un gergo nato in quelle ore passate a “cazzeggiare” dentro e fuori del bar, nei luoghi del passeggio serale, negli interminabili discorsi sperperati nello stretto abita­colo di un’automobile, fumo e musica ad alto volume, so­gnando donne di carne e lontani invincibili eroi. Si identifiche­ranno infine in quel gergo nato sulle piste di una discoteca do­ve il corpo si annulla e si “libera” in un frastuono generale, nell’abbraccio di tutti e di nessuno, nella voglia di perdersi ai confini del mondo.

In questo contesto il disimpegno scolastico viene addirittura ostentato: il bravo studente (tacitamente invidiato) è uno che sgobba, il tema copiato diventa un vanto e ci si fa beffa dei discorsi impegnati e “moraleggianti”. Ma ci si fa beffa anche di quella “pippa” di mamma che è sempre lì a preoccuparsi dell’ora tarda, del vecchietto che rimpiange (sic!) la beata edu­cazione di un tempo, della professo­ressa che “accora” con quel suo continuo invitare gli alunni a frequentare i teatri di Roma per meglio acculturarsi.

Spicca, diciamocelo, il tipico ambiente di provincia, quel costante arrovellarsi sul che fare, dove andare, con quella noia che fa da cappa ad ogni gesto, ad ogni pensiero, ad ogni pa­rola.

Ma in questo mondo dove nulla deve accadere ecco che l’irruzione di una ragazza sulla scena arriva a scompigliare il tedio del quotidiano. È la ragazza dell’amico, la ragazza del “capo” che nell’immaginario dei provetti bulli diventa la bella di tutti. Ma è una intrusa la ragazza, scombina, divide il “branco”. E dagli quindi alla ragazza che non può immaginarsi che vamp e va in giro nuda perfino, provocante, una poco di buono. Da qui a fare della ragazza il simbolo del male il passo è breve. È con lei che arriva la droga. I ragazzi vengono loro malgrado coinvolti in una storia di ‘roba’. Han paura i ragazzi della ‘roba’, ne han paura come della ragazza (Eva non è an­cora morta e vive insieme a noi!).

Ma è proprio senza speranza questo mondo dei ragazzi di provincia? Ci si può chiedere: come mai questi ragazzi vanno a rappresentare poi il “peggio” di se stessi? Si potrebbe rispon­dere allo scopo di far ridere: lo abbiamo detto, e basterebbe da solo a riscattare la commedia. È liberatorio il riso, si sa, e come tale sprigiona potenzialità positive, perché ridere di se stessi significa sapersi accettare ma portarsi a casa anche qualche motivo di buona ri­flessione. Guai anzi se la commedia non tendesse al comico. Sensa il riso diventerebbe un disastro, sarebbe seriosa, patetica, noiosa. Ma poi, non lo nascondiamo, si può ridere del “meglio” di se stessi? No! Si ride infatti pro­prio delle sventure umane e non della vita che fila sempre liscia (Farebbe ridere altrimenti Charlot?). E poi non c’è niente di più noioso di un ragazzo cosiddetto buono.

E allora non fermiamoci su questo “peggio”, sui valori più o meno positivi che questi ragazzi vogliono rappresentare. Quel che è magnifico è che loro hanno lavorato intorno ad un pro­getto artistico e ci sono ben riusciti. Ecco, è proprio il lavoro che li salva e li fa su­periori ad ogni velleità provinciale, ad ogni scarto culturale. I dialoghi che questi ragazzi sono riusciti a tirar fuori in ore ed ore di lavoro collettivo hanno fatto scatu­rire un prodotto che proprio per la sua qualità umana e lin­guistica si svincola dall’ambito scolastico per ap­prodare su palcoscenici più universali. E questo, se permettete, è un va­lore, è far cultura, è mettere in moto dei meccanismi catartici (da kátharsis, parola greca che significa ‘purificazione’) che sempre in ogni caso ci portano a ragionare, a migliorarci quindi.

I messaggi che lancia la commedia poi non sono rivolti sol­tanto agli studenti ma anche e soprattutto al mondo degli adulti che sono invitati a familiarizzare con certi linguaggi e compor­tamenti. Ciò al fine di poter capire e meglio predisporsi a un dialogo con i giovani possibilmente senza pregiudizi. Bisogna essere curiosi allora di segni, gesti e parole che non fanno parte di un mondo estraneo: sono dei nostri ragazzi. Forse chiamano aiuto, forse ci ammoniscono, forse ci chiedono di guidarli, sì, con più decisione sulla retta via. Non è questione di mano de­bole o mano pesante, a volte non c’è nessuna mano, a volte trionfa l’indifferenza. Il mondo che stiamo loro lasciando in eredità con risorse e spazi verdi sempre più limitati e conflitti e guerre di ogni tipo non ci fa onore. Questa poca speranza per il futuro la si trova nelle parole dei ragazzi, anche le più insen­sate, anche le più volgari.

La commedia, per finire, ha un valore documentario: è un modo di vivere, di fare, di parlare, di pensare che si offre co­me studio per le generazioni a venire. Si tratta poi di un lavoro a caldo, fresco, genuino. Si tratta di letteratura. Ecco, forse abbiamo un tipico esempio che ci aiuta a meglio accostarci a un romanzo, a una commedia, a un prodotto letterario in ge­nere. Niente si inventa, tutto ci viene dall’esperienza: la lettera­tura non è una cosa astratta, campata in aria: è una architettura di segni e contenuti che hanno sempre il reale come sfondo. È l’astrazione, è la rappresentazione che nobilita il reale, bello o brutto che sia, ma sempre bello se almeno rie­sce a comunicarci un’emozione, un ritmo, un suono, un so­gno.

Bravi ragazzi, non vi resta che continuare a proporvi come modelli in questa voglia di fare!

Alfredo Romano

Civita Castellana, 3/3/1994

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Presentazione del libro di Sandro Santori

Marcello libero Alberto stopper. Bologna, Limina, 2000

Civita Castellana, Sana conferenze
Biblioteca Comunale, venerdi’ 15 settembre 2000


Sulla foto di copertina del libro di Sandro, c’è un'immagine dei tempi andati, osso seppia, il colore della nostalgia, dei ricordi: riproduce una squadra di calcio, sono i ragazzi del Civita Castellana negli anni sessanta. Erano i tempi in cui di foto se ne facevano poche, ma ognuna, oltre a darci un’idea dell’epoca, ci regalava anche quella tipica staticità dei personaggi che contribuiva a circondarli di un alone di mistero.
Una foto conservata nel cassetto per tanti anni e tirata fuori un giorno, per caso magari, in uno scrittore può far scattare una molla: quella di rimettere in moto vicende, sentimenti e sensazioni che le immagini rievocano. Nel nostro caso succede anche che ognuno dei compagni riprende in squadra la sua posizione: si fa avanti, dribbla, si smarca, rinvia, riceve, tira in rete… Ma non è un libro sul calcio, come ci tiene a ribadire lo stesso Sandro, il calcio è solo un pretesto. Lo scrittore si fa strada nell’animo sincero dei suoi compagni, che nel frattempo sono diventati grandi, e li trasforma in io narranti, ognuno con le sue vicende, le sue riflessioni, i suoi rimpianti, le vittorie e le sconfitte della vita. Ne escono fuori dei quadri che appassionano, perché ci si immedesima, ci si specchia nelle piccole storie che insieme fanno la storia e la vita di una generazione.
Sandro lascia, abbiamo detto, la narrazione ai suoi compagni. Questo gli ha consentito quel distacco che è utile, se non indispensabile alla narrazione. L’effetto è quello di trovarsi di fronte a delle confessioni, chiamiamole così, di animo sincero, che un linguaggio scorrevole, a tratti ironico e di sottintesa poesia, rende di estrema leggerezza. Sentite questa: Che scoppiettio di rondini, stasera. Cosa le ha spinte a tornare anche quest’anno? Provare per credere: finale di un capitolo a p. 56.
Lo scrittore è soprattutto riuscito nell’intento di stagliare nel mito i suoi personaggi, così nelle vicende di quei ragazzi si possono riconoscere anche tutti i ragazzi di ogni provincia d’Italia che in quegli anni hanno militato in una squadra di calcio. D’altra parte è proprio questa universalità che rende interessante il libro di Sandro, per cui è inutile, anche se umanamente comprensibile, stare a interrogarsi sulla vera identità dei compagni di Sandro. Non serve. Si scrive, ma questa è la funzione dell’arte, per non morire.
Io in quella foto non ci sono, mi sarebbe piaciuto esserci però. A Civita ero appena arrivato e, lontano dagli studi, davo una mano ai miei a coltivare tabacco in quel di Terrano. Di Sandro sono diventato amico presto, poi anche di Massimiliano. Nella vita, si sa, in seguito ci si perde di vista, ma quando ci si incontra, a volte per caso, è come essersi lasciati il giorno prima. Con Sandro ricordo infinite riflessioni e discussioni sul nostro stare nel mondo, sugli ideali che ci permeavano in quegli anni di rivolte giovanili: politica, religione e società erano al centro dei nostri discorsi. Poi si tiravano fuori le nostre poesie: c’era bisogno di affidare i nostri pensieri a qualcosa di più profondo, a un momento lirico. Venivano anche le canzoni, quelle che allora dicevano di voler cambiare il mondo. Io quelle canzoni le canto ancora, anche se, come Sandro, le ho incorniciate nel mio dagherrotipo osso seppia.
Io Sandro e Massimiliano, per un momento possiamo spegnere le luci e, come si fa al cinema, squarciare una nuvola e aprire una scena di tanto tempo fa. Sandro e Massimiliano sono venuti a trovarmi, lì a Terrano, in quel mondo di diseredati della terra. Il fosso è a quattro passi, io ho voglia di mostrare loro che, anche se provengo da estese terre di vigne e di ulivi, ho già imparato a muovermi nell’impervia selva dei boschi, e a guadare il fiume controcorrente menando le mani per gamberi.
Presto fatto: ci si arma di una rozza pentola d’alluminio, frise di pane, vino, olio per friggere. E’ un pomeriggio inoltrato d’estate, insieme si raggiunge il fosso passando tra filari di maturo tabacco. Ci si inoltra nel bosco in discesa avvertiti dall’odore inconfondibile del muschio, dal calpestio di foglie marce e di nascosti improbabili funghi. L’aria caldo umida si spalma sulla pelle, il rumore del torrente entra come l’ingresso di un nuovo strumento in quella magica orchestra che evoca i rarefatti suoni del bosco, il silenzio perfino. Siamo arrivati alla radura, il torrente ne lambisce i confini di vecchia sterpaglia: al diavolo le scarpe!, i piedi guadano il torrente, l’acqua fresca è un refrigerio che smorza il sudaticcio dei nostri giovani corpi, smorza le ansie e gli smarrimenti di noi ragazzi di incerto avvenire, sempre alla ricerca di una qualche verità assoluta: soprattutto in cerca d’amore. Ne fanno la spesa i gamberi, abbondanti: li catturiamo con l’inganno nella loro fuga a ritroso.
Nel torrente si inciampa, si cade, si va interi nell’acqua; più in là uno scroscio fragoroso ci avverte di una cascata: la testa va giù, si accumula freschezza, si beve, sì si beve, si sorpassano tronchi di pioppi caduti, ci si attacca alle liane e proviamo con gli ululati di Tarzan. I gamberi sono un pretesto, esattamente come il calcio nel libro di Sandro: la verità è che si reclamano le belle sensazioni, le belle emozioni, quelle che attraversano l’anima e il corpo.
Ma la rozza pentola è colma di gamberi. Si torna alla radura, l’aria è più fresca, le lunghe ombre dei pioppi ci avvertono della sera imminente. Presto! dei secchi rametti! Nell’olio fumante i gamberi si colorano di rosso acceso: frise, gamberi e vino, un mezzo toscano, l’accenno al motivo di una qualche canzone, l’accenno a una ragazza incontrata al mattino, alla parola amore che non si riesce mai a definire; l’accenno a promesse, propositi, a sogni a venire, pacche sulle spalle, risate. L’aria prende a farsi umida, le ombre della sera infittiscono il bosco, sui sentieri scendono come arpie vecchi rami cadenti. Andiamo, amici, si fa notte: a casa c’è qualcuno che aspetta.

Alfredo Romano


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GLI ALUNNI DELL’ISTITUTO D’ARTE
SI FANNO POETI E PRESENTANO UN LIBRO

(da un articolo del giornale locale Lazio Sette)

Venerdì 17 giugno 2005, alle ore 17, nella sala “Alberto Trocchi”, presso la Curia vescovile di Piazza Matteotti, è stato presentato un volume di poesie dal titolo: “Scrittori… per caso: Speranza, Amore, Amicizia, Natura, Morte, Vita, Karol…. Autori delle poesie gli alunni delle classi IB, IIB, IIIB, IIC dell’Istituto d’Arte “Ulderico Midossi” di Civita Castellana, coordinati dalla loro prof.ssa Maria Loretana Sabbatini. La sala è stata affollata da un pubblico attento e caloroso, in gran parte amici e familiari degli stessi ragazzi-autori, i quali occupavano le prime file con un senso di incredulità quasi per l’interesse che veniva riservato ai loro componimenti. Le stesse poesie, tra l’altro, avevano appena meritato il premio letterario “Canto e Disincanto” organizzato dall’Assessorato alle Pari opportunità del Comune di Viterbo.

Presenti alla manifestazione il dirigente scolastico dell’Istituto d’Arte Franco Chericoni, il vescovo Divo Zadi, l’insegnante dei ragazzi Maria Loretana Sabbatini, che ha raccontato il “viaggio” suo e dei ragazzi per la realizzazione del progetto di poesia, e Alfredo Romano, bibliotecario della nostra cittadina, che dapprima ha svolto una relazione introduttiva sulla poesia e poi ha letto alcune poesie tra le più significative.

Qui di seguito il discorso ai ragazzi di Alfredo Romano.

L’EDUCAZIONE ALLA POESIA: QUANDO A SCUOLA
SI IMPARAVANO LE POESIE A MEMORIA.

Cari ragazzi, questo esprimervi sui vostri temi esistenziali e della realtà che vi circonda con un linguaggio oggi inusuale, quello della poesia, è lodevole e straordinario.

Prima, tanti anni fa, la poesia si respirava in casa: non c’erano libri di poesia, ma le persone anziane erano depositarie di una tradizione orale dove, accanto a proverbi, racconti e tiritere, non mancavano le poesie, specie quelle narrative, e noi ragazzi crescevamo al suono dei ritmi della poesia, ci prendevamo gusto, tanto che, quando s’affacciava l’approccio con le poesie della scuola, per noi non era una novità. Così, per non essere da meno dei nostri padri, per tutto il periodo delle elementari e delle medie, ma anche delle superiori, venivamo educati a imparare le poesie a memoria, anche quelle dei poeti minori: mi vengono in mente Francesco Pastonchi, Angiolo Silvio Novaro, Luigi Mercantini.

Quando frequentavo le scuole medie, c’era perfino un professore d’italiano che portava in classe un magnetofono (si chiamava così il registratore allora con tanto di bobine) per registrarci mentre recitavamo Omero. Lui pretendeva l’uso di certi toni, una certa cadenza e un ritmo tale, che nel verso si doveva sentire come una musica. E non aveva torto, visto che la poesia, alle sue origini, aveva un andamento melodico, non si recitava, ma si cantava quasi.

E’ un peccato che oggi a scuola non s’imparino più le poesie a memoria. Erroneamente si crede che quello fosse per i ragazzi un puro esercizio mnemonico, e invece, ancor oggi mi ritrovo in tante occasioni a ripetermi brani di alcune poesie imparate a memoria da ragazzo e vi assicuro che provo un certo diletto, per non dire felicità, quando succede.

E non fui sorpreso quando Italo Calvino, prima che morisse, a un intervistatore che gli chiedeva un consiglio per i giovani, lui, sensa scomporsi, rispose: “Imparare tante poesie a memoria, così, quando saranno grandi, quelle poesie faranno loro tanta compagnia”.

Allora, imparare le poesie a memoria significa anche educarsi alla poesia, perché poi ci sono ritmi, cadenze, pause che ti restano dentro e che continueranno a far parte del tuo bagaglio culturale e vitale.

Insomma, nessuno nasce imparato, si dice, e, come il garzone che va alla bottega artigiana per imparare da grande a costruire un mobile, così, per diventare poeti, occorre leggere e leggere poesie, scoprirne piacevolmente tecniche e segreti. Solo così ci si può impadronire del linguaggio della poesia e diventare poeti a sua volta.

I linguaggi dell’arte sono tanti, anche la poesia è un linguaggio e, come tutti i linguaggi, serve proprio per comunicare. In fondo si suona, si disegna, si recita, si fa poesia, proprio perché abbiamo bisogno di trasmettere esperienze ed emozioni che solo l’arte può nobilitare e rendere universali.

Succede così che riesci a dire con la poesia ciò che non sarebbe possibile raccontare col linguaggio di tutti i giorni, talvolta così banale. Questo spiega perché la poesia è una delle più belle forme di libertà, perché uno si può mettere a nudo con la poesia, rivelare stati d’animo, sogni, aspirazioni che sono accettati da chi sente o legge proprio perché espressi in forma poetica. Anche cose esecrabili dette in poesia si fanno perdonare. Ecco, la poesia non ha colpa, come non ha colpa un quadro, un brano di musica, perché l’arte è sinonimo di libertà.

C’è chi dice che la poesia salva la vita. Succede, a volte, che non sopportiamo il peso delle nostre esperienze, della nostra vita quotidiana, del solito tran tran; oppure emozioni che ci distruggono, come l’indignazione, la rabbia, l’odio, l’angoscia, il senso di noia, ma anche un amore che ti devasta. Ecco, se riusciamo a chiudere il tutto in una gabbia di poesia, otterremo di trasformare la forza distruttrice di certe emozioni in qualcosa di bello, di creativo. Vi assicuro che è l’unico modo per non lasciarsi sopraffare dalle emozioni.

Che cos’è la poesia scritta? È proprio una gabbia in cui dentro stanno chiusi stati d’animo, idee, emozioni che si liberano d’incanto nel momento in cui la leggiamo. Leggere una poesia ad alta voce, poi, è come stappare, permettetemi il paragone, un buon vino d’annata, quando, d’incanto, si aprono profumi, aromi e sensazioni per la gioia della del nostro naso e del nostro palato.

Pavese diceva che anche una sigaretta spenta sulle labbra può essere oggetto di poesia. Dipende sempre dal linguaggio, dalle sensazioni che ci provoca la poesia, da come riesce a sorprenderci soprattutto. Ecco, la poesia, leggendola, ci deve sorprendere in qualche modo, deve farci restare di stucco. Solo a questa condizione la poesia diventa tua. E ciò perché, una volta che la poesia è stata licenziata dal poeta, ecco che, come una canzone, diventa di tutti e non appartiene più al suo autore, ormai vive di vita propria. D’altra parte leggere o recitare la poesia di un poeta è come trascriverla di nuovo, sì proprio come scrivere un’altra poesia.

Ma che cos’è la poesia? Possiamo tentare una definizione. La poesia è l’arte e la tecnica di esprimere in versi esperienze, idee, emozioni, fantasie ecc., versi in cui c’è una visione soggettiva, e talvolta anche universale, di sé e della realtà circostante. Ma per chiamarsi poesia il linguaggio deve avere un certo aspetto fonico, un certo ritmo, un certo timbro, una certa sonorità.

Questo per dire che, per comporre una poesia non basta andare a capo a casaccio nel verso, perché occorre che ogni verso abbia un senso compiuto.

Ora veniamo alle vostre poesie. Da anni ho esperienze di lettura di racconti e di poesie con i ragazzi delle scuole elementari. Devo dire che sono molto sorpreso dalla curiosità dei bambini e dall’educazione alla lettura e alla poesia che ricevono dalle loro maestre. Si sa che le nostre scuole elementari hanno un grado d’eccellenza che ci invidiano anche i paesi stranieri. Forse perché in tenera età la lettura di testi e poesie rappresenta ancora un gioco. Di fatto è così

Nelle scuole medie, invece, questo tipo di educazione va scemando, anche se ci sono insegnanti che resistono e si prodigano. Ma, si sa, leggere una poesia richiede sempre un certo sforzo, una qualche attenzione, cosa che diventa sempre più difficile in un mondo dove non c’è più silenzio e, perfino in casa, la televisione è diventata la colonna sonora della giornata.

Ho già detto che non si imparano più poesie a memoria come una volta, men che mai alle scuole superiori, per cui sono rimasto piacevolmente sorpreso quando la vostra insegnante Loretana Sabbatini mi ha consegnato una raccolta di poesie di voi ragazzi dell’Istituto d’Arte.

Cari ragazzi dell’Istituto d’Arte di Civita Castellana, ho apprezzato il vostro tentativo di dare un senso alle vostre idee, alle vostre aspettative, ai vostri sogni, alle vostre paure con la poesia. Questo vi dà un tocco di distinzione, significa che siete alla ricerca di un linguaggio che riesca a trasmettere con più forza, con più passione, o con più grazia, il vostro mondo di ragazzi. Gli adulti non vi capiscono, a volte, è vero: provate a farvi capire con la poesia. Non vergognatevi di usare il linguaggio della poesia anche con i genitori. Forse può più un verso che cento litigate nella comprensione reciproca.

Ma adesso che avete scoperto questo nobile linguaggio della poesia (col quale non si guadagna un bel niente, è vero, ma vi assicuro che dà altri insospettabili guadagni), non fermatevi qui. Siate curiosi dei poeti, andateli a cercare (in biblioteca li troverete tutti, italiani e stranieri), cercate di rubare il segreto del loro linguaggio, fatelo vostro, innamoratevi di un poeta, fatene il vostro angelo custode. Così, vi può anche succedere di scrivere in poesia che si ha voglia di morire, ma proprio perché lo si è scritto, proprio perché lo si è gridato ai quattro venti, ecco che ne vien fuori una insopprimibile voglia di vivere: la poesia che salva la vita, appunto.

Alfredo Romano

venerdì 11 gennaio 2008

Alcuni racconti



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DOMENICO AMATO, PRESENTE!

Domenico Amato e la moglie Mafalda Belmonte Sofia. Civita Castellana, in località Terrano, 1990.
L'addetto al censimento invano scrutava l'aperto orizzonte, a metà strada sulla via di Terrano, per una casa, un muro, qualcosa. Domeni­co Amato insomma.
Né un fazzoletto rosso legato in cima a uno dei due pali che segnano l'ingresso d'una carreggiata che s'incurva fino a perdersi nell'orrido, po­teva rappresentare per il suddetto una traccia sufficiente.
Fu così che Domenico Amato non venne censito e, buon per lui, vi­sto che le statistiche (non si sa mai) vanno magari a spiare quel po' di prosciutti conservati per l'inverno!
In realtà quella carreggiata portava in quell'interrata e abusiva casa di Domenico che il figlio muratore ha tirato su di festa in festa aggrappan­dola sui fianchi di un fosso malvagio. Cacciato letteralmente dalla Tenu­ta Terrano, Domenico ha dovuto vendere i suoi tre aridi ettari di terra calabrese in cambio di un povero appezzamento a Civita Castellana.
Niente paura, niente trattore. Le mani bastano a ridurre in fertile polvere quei massi di tufo lunare, le mani per dar luce e respiro a un terreno di vecchia sterpaia.

Le mani di Domenico. Osservatele: sono rami d'un tronco nodoso dove a volte s'aprono fessure di carne che non conosce suture. il gelo le spacca e il caldo non basta a chiuderle, e Domenico con gesto di sfida vi spegne pure tranquillo, sul palmo, l'ultimo morso di sigaretta.

Non chiamate profanamente orto il suo variopinto giardino. Pomo­dori insalate e cocomeri fanno gola (peggio che Tantalo) a quei mono­toni pioppi che sfilano alti ai margini del torrente. Strani spaventapasseri vi s'aggirano, vestiti dei suoi abiti smessi, un berretto militare con l'imman­cabile striscia rossa a dirvi, passerotti e no, che Domenico è lì con una zappa più grande di lui ad affondare zolle mai smosse.
Alto è l'arco della zappa, ritmato, scandito da un ooh! di gola soffoca­to, a misurare il tempo di un orologio che non c'è, ma di un sole che s'alza e tramonta sull'ultimo sterpo rubato, a far legna, a una vecchia siepe.
Domenico, chi sei? Piccolo e magro i Turchi ti cacciarono dalla terra d'Albania 500 anni fa e ti fu vano l'eroismo di Scandenberg nel tuo rifu­gio sui monti di Calabria a Carfizzi.
Niente è cambiato da allora, e a 70 anni insegui ancora il mito d'una terra promessa: E 'adesso ti dico pure io una parola. Quando siamo nati siamo nati tutti nudi. Uno solo ha 100, 200, 300 ettari, uno solo tutto il mondo. Dove 1'hai comprato? Da Alfredo. E Alfredo? Da quel giovanotto. E il primo il primo? L'ha fregato a Gesù Cristo, s'è imposses­sato lui, è tutto mio, perché noi siamo nati per mangiare in aria. La terra doveva essere di quello che la zappa, di quello che la lavora!.
E nata nella tua vicina Melissa questa tua filosofia. Lontano sentivi gli spari dei poliziotti sui contadini che occupavano le terre incolte per far pane per i propri figli come dici tu. Saranno gli sposi al paese ti spiegava il cugino Mariano e tu non po­tevi che credere.
Tu infatti non hai mai odiato i padroni, non sei capace di odio e an­cora oggi ti fai in quattro per un impiegato, un carabiniere, un politico che escono da casa tua con le borse piene in cambio di promesse mai mantenute.
Son anni che ti promettono la luce. E già, perché, se non lo sapete, da anni Domenico vive al buio. Pur a quattro passi dalle linee elettriche l'Enel chiede fior di milioni per l'allaccio. Così anche quel pozzo artesiano che ti sei fatto scavare per il fabbi­sogno d'acqua non ti serve a niente senza corrente. Quindi anche senz'acqua.
Stazionano ai quattro angoli esterni della casa vecchi fusti di petrolio a raccogliere l'acqua piovana. Per bere, Mafalda, la moglie, va a mendicare l'acqua presso un caseggiato lontano.
Caro Domenico, abbiamo interessato tutti onestamente per la tua luce, la tua acqua, beni per noi tanto scontati. Ma forse che un altro, più intrigante, non avrebbe trovato quella so­luzione così perfidamente negata a uno sconosciuto contadino calabre­se?
Ungere Domenieo, ungere bisogna; ma tu sai solo sputare sulle cal­lose mani per farle meno ruvidamente scivolare su manici di zappa con­sumati.
T'ho visto qualche tempo fa un po' sperduto sotto i portici del Comu­ne con in mano una cartolina speditati dall'Ufficio anagrafe allo scopo di finalmente censirti, benché trascorsi più di due anni. Forse non scherzavi troppo nel credere fosse una cartolina prccetto. Così ci hai ripetuto per l'ennesima volta dell'8 settembre del '43 quando, sbandato, percorresti a piedi mille e più chilometri da Udine a Catanzaro.
Abbracci, quanti me ne hai dati! E solo perché talvolta t'ho spianato la strada della burocrazia nemica, a te che per vivere basta un bicchiere, una sigaretta, un po' di sole e una tessera del PCI del '67, consunta, ge­losamente custodita nel portafoglio. A tutti la vai ostentando, non certa­mente per chiedere qualcosa (alla tua età ormai) ma solo forse per dire chi sei, da dove vieni, le speranze e i sogni che ti hanno cullato su per quelle solitarie mulattiere attraversate, anzi l'alba, a dorso d'asino, gli occhi chiusi su bianche e comode lenzuola, roba di signori: Faceva si­mile cosa cu due sumarti, cui pettorali, cu l'aratri, l'hai visti? A mete­re a manu tuttu giugnu a metà lugliu e mangíavamu al sole. Dopu, quandu trebbíavamu u granu, cu la trebbia, cu l'ara puru, cu i boi, cu u mulu, cu lu sumarru, gíravamu sempre tutta la jurnata, al sole, ad agostu, puru settembre. E quandu trebbíavamu u granu, dopu che ll'avìeme pulizzatu, ai sacchi, ai tomi li chíamamu nui, te menzu quintale e menzu quintale te l'altra parte, au bastu, e camminavamu a piedi tre ore e menza, quattru ore, puru cinque, tuttu in salita comu la montagna te Sant'Oreste, a piedi, senz'acqua pe' strada, i piedi schiattàvane di sangue, rivava a casa pe' mortu!
Caro Domenico, ti regalerò una chitarra nuova perché quella tua vecchia di tanti anni,fa è ormai rotta e si scorda sempre. Il manico poi è così stretto che le tue callose dita fanno fatrica a muoversi negli spazi tra le corde.
Perché Domenico, se non lo sapete, prima che faccia buio, sa pure allietarvi al ritmo d'una tarantella, a rimembrarvi vecchi balli sull'aia, amori e sguardi goduti nel giro d'un valzer, strappati alla vista di mamme severe, a un mattino di fatica che mai tarda a venire.
da FATTI E FIGURE DEL NOSTRO PAESE
L'Informatore Civitonico, n. 14 feb. 1984
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La premessa al racconto VENIVA DA LECCE LA BELLA MAESTRINA

Voglio dirvi che stasera voglio bene a tutto il mondo, a tutti voi in particolare che siete venuti in biblioteca e che non so come ringraziare.
Da 23 anni lavoro in questa biblioteca, mi passano per le mani centinaia di libri da catalogare e da prestare. Mi passano come le cortine di tufo per un cavatore, con la differenza che io con i libri mi diverto. Mi sono divertito pure a scrivere questo libro e mi piacerebbe che potesse divertire anche voi.Adesso voglio raccontarvi una storia. E' la storia di un incanto e di un disincanto. Ma non è la storia di una delusione, è che a un incanto segue sempre un disincanto e io, in genere, me li vado a cercare tutti e due, perché l'uno è la condizione dell'altro. In breve: io credo ancora nelle favole, anche se in giro ci sono alcuni, poveretti, che dicono che non sono vere. Ogni tanto poi sbatto il muso contro la realtà: questo fa bene. Ma quelli che non credono nelle favole il muso non ce lo sbattono mai: e questo fa male.
Voglio farvi una premessa. Io sono contento di essere un leccese di Civita Castellana. Se così non fosse io questo libro non l'avrei mai scritto e voi non sareste qui stasera a farmi festa.

E adesso vi voglio raccontare.



VENIVA DA LECCE LA BELLA MAESTRINA


Vestiti d'un grembiulino nero, un po' lacero ma pulito, con un
colletto bianco
inamidato allacciato da un grosso fiocco azzurro, stavamo affacciati col naso schiacciato contro il vetro, alla finestra della scuola elementare. Attendevamo tutti con ansia l'arrivo della bella maestrina. Era puntuale. Ad un minuto dal suono della campanella sopraggiungeva sul piazzale una fiammante 600, color verdino, con le portiere che dall'interno si aprivano sul davanti.
Accompagnata da un fusto di fidanzato, vestito in doppiopetto grigio con i baffetti alla Fred Buscaglione, la maestrina, nell'atto di scendere dall'auto, divaricando le belle gambe, lasciava involontariamente scoprire un pezzo della sua carnagione bianca. A quel punto per un posto in prima fila alla finestra succedeva di tutto: spintoni, gomitate, cazzotti e colpi bassi. Poi tra un fuggi fuggi generale ognuno al suo banco e a far finta di niente al sopraggiungere in classe della maestrina.
Portava generalmente delle scarpe bianche a punta con tacchi alti, un tailleur classico chiaro con gonna che scendeva oltre le ginocchia, una camicetta bianca con colletto smerlato alla quale dava risalto una collana di perle a triplo giro che ornava un collo gentile, a reggere un viso dolce e bianco, di una bellezza non sovrastante ma delicata, pulita, sfumata da una punta di rossetto che sprigionava un profumo vagamente di violetta, profumo che faceva svenire anche quelli dell'ultima fila di banchi che a quel tempo erano i più asini della classe.
La bella ed elegante maestrina veniva da Lecce. Ma la maestrina non poteva che venire da Lecce. Tutto ciò che era signorile, tutto ciò che era bello, che era grande, che era diverso, tutto quello che noi non conoscevamo, che non avevamo mai visto, veniva da Lecce.
Per noi bambini di Collemeto, una frazione allora di pochi contadini, Lecce era un sogno. La maestrina leccese non perdeva occasione di parlarci con dovizia di particolari dei grandi palazzi baronali, delle bellissime chiese barocche, delle ville liberty, dei negozi fantasiosi dove si poteva trovare merce indescrivibile, mai vista, che magari arrivava dall'America o dall'Oriente lontano; ci deliziava facendoci mentalmente entrare in quel bazar che doveva essere il mercato coperto dove c'era tutto il ben di dio: potevi trovare pesci dai mille colori, e alcuni lunghi anche un metro; c'erano montagne di cozze, di ostriche, di polpi; c'erano cataste di agnelli, carni di tutte le specie; c'era gente addirittura che cucinava per strada.
E poi sacchi e sacchi di verdura, di cicorie, finocchi, rape che la gente comprava a bracciate e chi aveva le braccia più lunghe ne portava a casa di più. E c'erano traini pieni di quintali di mandarini, di aranci, di noci. E poi era tutta una festa, Lecce era tutta una festa, con le belle strade illuminate di notte che sembrava giorno, con i suoi cinema dove potevi vedere Totò, conoscere Amedeo Nazzari; con i suoi teatri dell' 800 dove si esibivano i grandi cantanti d'opera, le belle e provocanti ballerine alcune delle quali si mormorava venissero da Parigi.
Ad occhi aperti noi ragazzi di Collemeto, sognavamo Lecce e giuravamo: quando saremo grandi andremo a Lecce. Lecce che dista da Collemeto soltanto 17 km.
Per tutte quelle meraviglie che ci raccontava la maestrina noi restavamo “sbabbati” come dire a boccaperta. A noi ragazzi di Collemeto ci sembrava allora di non avere niente se non le strade per giocare, i campi di grano dove nasconderci, i lunghi filari di viti per rincorrerci tra folti grappoli d'uva nera che ci impiastricciavano la bocca tra un fiatone e l'altro, gli alberi d'ulivo centenari sui quali arrampicarci a caccia di nidi, a caccia di cicale. Non c'era l'acqua in casa, non c'era la luce, ogni sera la mamma ti mandava a comprare mezzo litro di petrolio per la lampada.
E la maestrina si divertiva a sorprenderci, a raccontarci di quel paese delle meraviglie che era Lecce. E rideva, rideva molto delle nostre goffagini, del nostro essere dei cafoni di provincia che in italiano sapevamo appena pronunciare "buongiorno". Per noi i Leccesi erano gli abitanti di questa città meravigliosa che sognavamo. Nel dopoguerra in Italia c'era il sogno americano, per noi ragazzi di Collemeto c'era invece il sogno leccese: e ci bastava.
Succedeva talvolta che mio padre si recasse a Lecce. Tornava sempre con delle cose, a volte anche qualche cassetta di frutta, oppure qualche chilo di carne. Ai vicini non bisognava far vedere, non era giusto suscitare invidie, pur trattandosi di poca roba. Poteva capitare da parte nostra di non apprezzare sempre le sorprese di mio padre e allora lui con rabbia e risentimento: "Disgraziati!" ci apostrofava "lo sapete che questa roba l'ho comprata a Lecce? Questa roba mi costa mille lire come mille santi del Paradiso!".
Ancora oggi se incontro un leccese e lui scopre che sono di Collemeto, mi guarda come per dire "Poveretto, non ti poteva capitare di peggio, beh sai, io sono di Lecce!".
Poi un giorno di tanti anni fa, avevo 16 anni, arrivai a Civita Castellana. Alcuni mesi prima di partire, sapendo di dover emigrare a Civita Castellana, andai a curiosare sull'atlante geografico. La vedevo tanto lontana Civita Castellana, non ero mai stato così lontano. E mi immaginavo boschi di favola, mi immaginavo fiumi, mi immaginavo montagne, alberi giganteschi, paesaggi che avevo intravisto solo sui libri di scuola.
Quando il furgone stipato di gente e bagagli come sardine fece ingresso a Civita Castellana provenendo dalla Cassia, imboccò la strada di Terrano e sul ponte mi resi subito conto che quello che avevo sognato di Civita Castellana era vero, lo stavo toccando con mano..
Mi apparve bellissima Civita Castellana, questi fossi così lussureggianti, queste valli che si perdono in lontani casali come fossero fatti di cioccolato, i fiumi, questi tortuosi torrenti e cascate sormontati da altissimi pioppi, le montagne sullo sfondo, il paesaggio vario con le discese e le salite che contrastavano con le aride e monotone pianure delle mie parti.
Tutto mi sembrava bello. Sì, entravo in un paese nuovo, fantastico, ero eccitato, impazzivo in quella corrierina anche qui col naso schiacciato contro il vetro del finestrino e gli occhi che non si davano pace nell'imbarazzo di dover rubare con lo sguardo il paesaggio meraviglioso che mi sfumava alle spalle e invano gridavo a Vittorio, il conducente, di rallentare: "Avrai tempo, avrai tempo", mi assicurava.
Qualche giorno dopo poi, mi accadde di incontrare un signore, proprio nel Duomo di Civita. Il signore s'accorse che non ero di Civita Castellana e sorpreso dal mio accento mi domandò: "Sei un leccese?"*
"Un leccese?" risposi "beh, sì, della provincia: più precisamentesono di Collemeto, una piccola frazione di Galatina. A dire il vero ho sempre sognato di essere un leccese, ma mi dispiace deluderti, sono di Collemeto, un paese piccolo che non conosce nessuno, anzi non è neppure un paese, sono proprio quattro gatti"
"Ma a Civita Castellana" riprese il signore con un certo stupore "quelli che vengono da laggiù li chiamiamo tutti leccesi".
"Veramente? Ah che bello, ci chiamano leccesi? Almeno potrò vantarmi e dire che vengo da Lecce, un cittadino, non un cafone di Collemeto!".
Qualche anno dopo, tornando al mio paese, mi capitò di incontrare un mio amico, proprio di Lecce città. E gli confidai: "Lo sai che adesso sono un leccese anch'io?"
"Sul serio? Ma stai scherzando: ti sei trasferito a Lecce?"
"No, a Civita Castellana"
Il mio amico non capì, io però sì. E dentro un po' amaramente prese a echeggiarmi il motivo del Bolero, quello di Ravel, fino a che il crescendo non mi fece esplodere in una fragorosa risata, fra l'incerta ilarità del mio amico.
Relazione tenuta nella sala delle conferenze della biblioteca comunale di Civita Castellana il 3/4/1993 in occasione della presentazione del volume "Salento tra mito e realtà".

* Esiste una folta comunità di Salentini a Civita Castellana dove il termine leccese ha assunto nel corso degli anni un significato improprio, come dire terrone, incivile ecc.
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QUANDO SUL TARDI IN BIBLIOTECA SI LEVA QUEL VENTO DI SCIROCCO

Fa più caldo del solito di questi giorni in biblioteca. Non è un segreto. Nella mattinata poi, sul tardi, si leva sempre un vento di scirocco che raduna un po' di nuvole afose che, non appena pomeriggio, sono pronte a scaricare lampi e tuoni su qualche altura circostante. Non mancano in verità acquazzoni improvvisi per attese frescure. Ma che vuoi, sollevano un po' di polvere, spruzzano qualche punta di ozono e aumentano il famoso tasso di umidità. Tasso che si concentra particolarmente in questa serra a basso costo che è la biblioteca, favorito dalle lunghe e ampie vetrate che sorreggono l'alto soffitto della "navata" centrale.
Quand'è così ti vien voglia di aprire le finestre, per dare sfogo a qualche alito di vento che possa accarezzare le madide fronti dei lettori, nonché scongiuri i milioni di acari che al caldo, nelle pieghe

dei libri, se la ridono. Ma non s'aprono le finestre di ferro arrugginito perché l'architetto dell’antico mercato coperto, ora biblioteca, s’era premunito di scoraggiare eventuali ladri di frutta, ortaggi e polli vari. Non aveva fatto i conti con la prima estate però l'architetto, quando s'avvide che l'uva spontaneamente diventava passita, con grande gioia del vin santo, e i fiori attecchivano per incanto dando vita a nuove composizioni, e i polli, dopo un principio di sudore, rosolavano lenti, facendo risparmiare sul gas.
Ma polli e ortaggi, un bel giorno, eludendo la stretta sorveglianza dei venditori, trovarono il modo di darsela a gambe:
«Che razza di gente!» disse il pollo sdegnato, uscendo di corsa da una porta secondaria e facendo strada all'esercito di frutta, verdure e carni varie che lo avevano eletto a capo indiscusso della fuga «che maniera! tapparci in questo forno, farci soffrire così!: si vede proprio che non c'è più rispetto. Ci mettessero libri, se proprio insistono, quelli almeno non soffrono. Ché soffrono i libri?» rivolto ai compagni di fuga.
«Ché soffrono i libri?» intonarono in coro tutti gli altri. Ma questa domanda rimase nell’aria, sospesa, e nessuno seppe darvi risposta.
Il caso volle che il lamento del pollo, come quell'idea dei libri, venissero raccolti al volo proprio da tre maggiorenti del partito che aveva vinto le elezioni. Costoro si recavano in delegazione al mercato coperto per saggiare gli "umori" delle merci varie.
«Avete sentito?» disse il primo maggiorente, non riuscendo a spiegarsi tanto trambusto intorno al mercato.
«Non abbiamo bene afferrato» si affrettarono a rispondere gli altri due «ma abbiamo come l’impressione di un fuggi fuggi generale.» E il primo continuò: «Mi pare che le merci parlassero di libri. Un pollo non ancora rosolato consigliava di sistemarli proprio qui al mercato, vanto della nostra città. Non è proprio una cattiva idea: sempre meglio che lasciare la biblioteca in quello che era l'appartamento del maresciallo nella vecchia caserma dei carabinieri.»
«Mi sembra giusto, oltretutto la merce, che è la nostra base, va ascoltata: questa è vera democrazia» proruppe il secondo maggiorente. «E poi è vero» continuò, «troppe lamentele si sentono in giro a proposito del mercato coperto. Magari in paese si esagera nell’insinuare che c’è stato uno sbaglio di progettazione. Si tratta di una calunnia. Sì, insomma… Si dice che l'architetto, avendo tanti progetti per le mani, ne scelse uno a caso e invece del mercato venne fuori una serra a forma di chiesa con tre navate. Ho visto io stesso gente di fuori passare qui davanti e farsi la croce. Per non dire di chi cerca il parroco, entra e si trova costretto a comprare un chilo di pomodori. Ma ditemi, che sta succedendo? sbaglio o qui scappano tutti?»
«Io ve ce manderei voi all’inferno e quelle tro...» Ma non s'avvertì il finale in mezzo al frastuono generale.
«Propongo anch'io di sostituire i polli e gli ortaggi con i libri della vecchia biblioteca. I libri, si sa, non soffrono e né scappano, qui li lasci e qui li trovi» finì per sentenziare il terzo maggiorente.
Fu così che in capo a qualche anno il mercato coperto fu trasformato in biblioteca. L'evento fu storico. Per l’inaugurazione venne invitato perfino un grande scrittore, accanto al quale l’assessore alla cultura di turno non ci stava nella pelle: «Anch’io anch'io» si raccomandava impettendosi più del solito di fronte al paparazzo.
Onestamente tutti ammirarono la nuova biblioteca, le belle travi di ferro petrolio, i bei soffitti e controsoffitti di nordico pino. Ma gli scaffali? Gli scaffali niente. Sì, qualche fila modesta, ma scaffali...
«Che fine hanno fatto gli scaffali?» urlava come un ossesso il bibliotecario. E a ogni urlo seguiva una sventagliata di piccioni spaventati. I quali piccioni, in verità, si sentivano discriminati rispetto alle colonie degli altri piccioni. Avevano sì preso possesso, a loro modo di vedere, di una chiesa, ma il campanile? Costretti ad andar per tetti piuttosto che alloggiare nell'abituale piccionaia, allietata tra l’altro dal suono delle campane, non sapevano se prendersela col famoso architetto, direttore dei lavori, o col vescovo in persona.
«A me è stato chiesto di progettare un centro culturale e non una biblioteca» si giustificò l'architetto.
«E i libri, dove li mettiamo i libri?» seguitava a squarciagola il bibliotecario. E di nuovo la sventagliata dei poveri piccioni.
Ma da lì a qualche giorno, come per incanto, ecco che apparvero in biblioteca decine di scaffali, posti proprio in quegli enormi spazi che l'architetto aveva progettato vuoti, forse per eventuali feste danzanti o caffetterie o sale da tè per lettori allegri e festosi.
In verità l’infìdo bibliotecario, con un vero colpo di mano, approfittando del novilunio, s’era trascinato dalla vecchia sede, uno a uno, gli ancora solidi scaffali, legandoli al portabagagli della sua malconcia Renault (Quando si dice gallina vecchia!).
«Chi ti ha dato il permesso? Ci sono troppi libri in questa biblioteca: questo si chiama sfruttamento democristiano dello spazio» sbottò l'architetto contro il bibliotecario, non appena avvistò i vecchi scaffali che deturpavano, quali intrusi, a suo dire, la sua opera d’arte. «Quello che conta» andava ripetendo «è che il lettore, mettendo piede in biblioteca, non si lasci fuorviare dai libri, ma sia folgorato dalla bellezza dei colori, dall'armonia delle strutture: a tal punto da sentirsi sollevato al primo piano e provare la cosiddetta tentazione di volare.» Poi, con tono più prosaico: «E con le foto, come la mettiamo con le foto? Ho promesso foto a fior di riviste e adesso tutti questi libri su quegli scaffali mi hanno rovinato tutto, tutto... Siano maledetti i libri e più ancora il bibliotecario! Ma dove l’avete pescato questo c... di bibliotecario?» Questa volta rivolto all’assessore al patrimonio che gli stava dietro come un segugio. E costui:
«È un leccese, architetto, è quanto di peggio ci potesse capitare. Tratta i libri come fossero tabacco. Raccoglieva tabacco un tempo e l'ho visto io tra i filari con enormi mazzi di foglie in mano, sovrapposte così bene, da scambiarle per le pagine di un libro. Lui non possedeva libri, architetto, e così gli sembrava di leggere. Che era la sua passione. Per vendetta giurò che un giorno avrebbe riempito questo paese di libri. Non può vedere spazi vuoti, è più forte di lui: appena può ci ammassa cataste di libri. Che poi non capisco dove prenda i soldi per comprare tutti questi libri. A dire il vero noi gliene diamo pochi. Sarà amico di un asino fatato, certamente.»
«Quale asino! assessore!» tagliò corto l’architetto.
«Sì, si dice che nasconda un asino che di notte, invece della cacca, gli fa tante monete d'oro, e sopra un lenzuolo bianco per giunta, tutto ricamato. È un asino esigente, se è per questo.»
Quindi all'indirizzo del bibliotecario: «Chi ti ha dato il permesso di sistemare così tanti libri e scaffali in biblioteca? Sbarazziamocene! te lo ordino! via, accantoniamoli da qualche parte! che non si vedano!»
E aggiunse: «Un po' di pazienza diamine: facciamo passare almeno il giorno dell'inaugurazione! Che figura mi fai fare: ci saranno ospiti di riguardo, notabili, giornalisti, il vescovo in persona a benedire.»
«Shakespeare! me l’ha dato Shakespeare il permesso» protestò prontamente il bibliotecario «per cui io non porto via un bel niente: le biblioteche sono fatte di libri.»
«Shakespeare, chi era costui?» disse a mezza bocca l'assessore.
«No, quello è Carneade, mi scusi» lo corresse il bibliotecario. «Ma non finisce qui» minacciò l'assessore, questa volta con voce tradita da un certo affanno.
E venne la prima estate della biblioteca nuova e anche l'effetto serra era nuovo, teso com’era a proteggere dal vento non più broccoli e polli ma migliaia di libri la cui polvere, levandosi leggera nell’aria, regalava ai lettori un nonsoché di decadente, un sentore di filtro magico che li faceva sprofondare nelle ragnatele dell'Ottocento, in qualche trama oscura e romantica.
E al varco c'erano i primi acari e altri ne sopraggiunsero, a milioni, richiamati dal caldo banchetto:
«L’è carta non l’è merda!» esclamò felice il primo acaro con un insolito accento padano. E giù tutti a mangiare.
I guai per gli acari vennero quando presero ad assediare le tragedie di Shakespeare. Averlo saputo si sarebbero buttati sul saggio d'arte di un certo Sgarbi (non avrebbe protestato nessuno vero), ma Shakespeare si rivelò un osso duro, non resse l’affronto: in un batter d’occhio trasformò tutte le parole delle sue tragedie in suoni così acuti e lancinanti, da svegliare e aizzare contro gli acari le parole degli altri 15.000 volumi.
Dovettero scappare in ritirata gli acari, ma se ne stavano sempre in agguato, aspettando un momento di debolezza del gran capo Shakespeare. E così fu. Shakespeare, un bel giorno, si stancò di stare in trincea vigile e attento, lui già stanco del peso delle sue tragedie, lui che riposava ormai nel fatale marmo che aveva immaginato per Giulietta.
Ma fu Galileo Galilei, lo scienziato che riscuoteva più credito nella notte dei libri, a correre in soccorso di Shakespeare recandosi in sogno al bibliotecario:
«Per vincere gli acari non c’è che l’aria condizionata,» gli suggerì «ma stai attento, potrebbero andar via gli acari e sopraggiungere i corvi.»
Il bibliotecario si svegliò trasudato: «I corvi... chi potevano essere i corvi? Galileo certamente alludeva: di corvi veri nelle biblioteche in fondo non se ne erano mai visti.»
Passarono gli anni e finalmente iniziarono i lavori per l’aria condizionata. La biblioteca chiuse. Sarebbero bastati tre mesi, si disse. Trascorse un anno. I lettori sollecitavano la riapertura. Ne sarebbero trascorsi tanti di anni se il bibliotecario (altro colpo di mano) non avesse preso l'iniziativa di risistemare la biblioteca e di riaprirla nonostante i lavori a rilento, per non dire fantasma, largamente finanziati dalla Regione; nonostante soprattutto l'indifferenza dei cosiddetti maggiorenti.
«Vedrete che con l’arrivo dell’estate avremo l’aria condizionata» assicurava ancora speranzoso il bibliotecario ai lettori.
«Che bello, invece di andare in vacanza verremo a goderci il fresco della biblioteca.»
«Vedrete,» insisteva il bibliotecario «vedrete.»
Ma arrivò l’ennesima estate che segnò l’arrivo dei primi acari, i quali chiamarono i secondi, che avvertirono i terzi. In breve milioni di acari affollarono la biblioteca e come prima, più di prima, banchettavano allegramente nelle calde pieghe dei libri.
E il bibliotecario andò dal sindaco, e andò dall’assessore, andò dall’architetto, dal geometra, dal ragioniere, dalla ditta, andò dal segretario. E andò.
«Ci sono gli acari! correte, fate presto, non si può...!»
«Non si può che cosa?» intonarono tutti in coro.
«No… volevo dire... c’è Shakespeare che... poi Galileo Galilei... Si tratta dei corvi, ha detto che bisogna stare attenti ai corvi, che sono più pericolosi degli acari.»
«Galileo Galilei che cosa? i corvi?
«Mi è venuto in sogno...»
«Ah, bene, bene, ti è venuto in sogno il Galilei eh?» disse l’architetto arredatore degli spazi vuoti.
«Non ha bisogno costui forse di qualche assistenza?» suggerì l’assessore, ma sottovoce, con discrezione.
«Sì, ci sono fior di professionisti nei centri mentali della nostra città» confermò il sindaco.
«I libri soffrono» continuava a ripetere il bibliotecario «e soffrono anche i lettori: sudano, a volte sudano e bestemmiano. Shakespeare invece piange, non ne può più di tragedie quel poveretto. Sul tardi poi si leva sempre un caldo afoso, con finti temporali, e arrivano gli acari, arrivano in massa, milioni di acari, banchettano. Da libri come quello di Sgarbi non ci vanno vero: ce l’hanno con Shakespeare, per loro è come il caviale. Se ne fanno gioco gli acari, tanto che neanche Otello ormai è più geloso della sua Desdemona... non ha la forza neppure di far cadere il fazzoletto... fazzoletto... fazzoletto...»
E così i corvi presero a banchettare con gli acari. E tutti rimasero felici e contenti e nui nu’ ìppime gnenti.*
da Cronache afose, Agosto 1995



* Non avemmo niente (dialetto salentino).
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A 50 ANNI DALLA CONSACRAZIONE DELLA CHIESA DI COLLEMETO E DI DON SALVATORE: LE MIE ORIGINI DEL SACRO


Torno ogni estate a Collemeto. Non nascondo che col
tempo il viagg
io si fa sempre più lungo, più faticoso: ti pare di non arrivare mai. Ma per nulla al mondo rinuncerei a quegli attimi di commozione che ogni volta mi prendono, quando, nei pressi della casa cantoniera, sulla Lecce-Gallipoli, il mio sguardo coglie la sommità delle case bianche in mezzo agli ulivi, e su tutto svetta la chiesa col suo campanile asimmetrico, il simbolo del mio paese.
Il ritorno è bello ed anche amaro a volte. Ci sono cose che hai lasciato e che non trovi più. Il paese va avanti, si trasforma, cambia; i luoghi della tua infanzia spariscono man mano; tanti volti di persone care non ci sono più; altri si affacciano, sempre più numerosi, tanto che a volte hai come l'impressione di essere un estraneo nel tuo paese.

Io, nel mio egoismo, vorrei magari che tutto restasse come prima, fermo a quel giorno lontano di 35 anni fa, quando un furgone mi strappò via per altre terre più feconde. Ma questo pensiero, lo so, è il difetto di tutti gli emigranti, ed io non sono da meno.
Una cosa che non cambia mai però c'è, e se ne sta lì immobile, maestosa: è la chiesa. È grande la chiesa, la più grande del mondo… a guardarla con quegli occhi di quand'ero bambino, allorché le cose reali sfumavano nell'immaginario e spesso, come in tutti i bambini, assumevano dimensioni fantastiche, gigantesche.
È che io sono cresciuto con la chiesa; io e la chiesa siamo nati insieme, e insieme stiamo invecchiando. Mi conforta sapere che il giorno in cui non ci sarò più, lei sarà sempre lì, con la sua maestosità, testimone della storia di un paese e delle piccole storie di ognuno di noi, che, intorno a lei, abbiamo vissuto, sofferto ed amato.
Il tre marzo 1949, quando sono nato, la chiesa della Madonna di Costantinopoli di Collemeto, dopo anni di attese, di solleciti e speranze, era pressoché ultimata; mancava solo la sua consacrazione, che sarebbe avvenuta di lì a poco, nel successivo ottobre dello stesso anno.
Il nuovo parroco, don Salvatore Nestola, da poco succeduto a quel don Salvatore Meli che fu l'artefice della costruzione, non aspettò tuttavia la consacrazione per mettere in funzione una struttura che tutti aspettavano… comu anime sante, per dirla come si dice da noi. Egli non si fece tanti scrupoli nel mettere già in funzione il fonte battesimale in marmo pregiato, posto allora all'inizio della navata sinistra.

Bene, io sono stato tra i primi ad essere stato battezzato nella chiesa nuova, e i cinquant'anni della sua storia sono anche i miei, e mi sento di condividere le celebrazioni di un evento che considero storico per la nostra sia pur piccola Collemeto. E poi, la storia, non siamo noi a farla? Non siamo anche noi protagonisti della storia, oltre a re e regine, principi e baroni?
Una chiesa, meglio dire una chiesetta, c'era a Collemeto. Stava (ci sta ancora) alla periferia del paese, sulla via che porta a Galatina. Ma il paese era cresciuto, alla messa della domenica la gente si accalcava fuori, in piedi. Soprattutto era una cappella privata che apparteneva ai Mongiò, e la gente di Collemeto aveva necessità di una chiesa tutta sua, una chiesa che le desse quel senso di identità e di appartenenza che ha ogni comunità che si rispetti. D'altronde, non erano proprio i greci che, nel fondare una città, innalzavano dapprima il tempio e poi le abitazioni? Questo per dire che è innato il bisogno di ogni comunità di ritrovarsi in una struttura che fosse il simbolo della propria fede, delle proprie aspirazioni, della propria vita collettiva.
Mi chiedo a volte cosa sarebbe stata la vita di noi ragazzi senza quei riti che in chiesa scandivano la nostra vita quotidiana, specialmente la domenica. Eravamo in tanti, allora, a servire messa; non c'era famiglia che non avesse in casa un suo chierichetto. Indossavamo una cotta bianca su una tunica rossa, colori che ci facevano un po' cardinali in erba. Le messe e le altre funzioni serali avevano riti liturgici che non s'imparavano tanto presto. Diventava un onore allora saper rispondere, anche se in un incerto latino, a don Salvatore, e muoversi con disinvoltura sull'altare al cospetto di una chiesa affollata, rispettando i dettami della liturgia.
A volte si era talmente tanti che il gradino più basso dell'altare non bastava a contenerci tutti inginocchiati. Sicché ci si faceva largo a botta di spinte, come fosse un gioco. Non mancavano situazioni comiche anche, che scaturivano da errori e disattenzioni del solito chierichetto ingenuo. A volte bisognava chiudersi le labbra a forza con le mani, per non scoppiare dalle risate. Poi il riso contagiava tutti, ed era un fuggi fuggi generale in sacrestia. E don Salvatore, con santa pazienza, è il caso di dirlo, restava solo sull'altare a spostarsi il leggio o a versarsi l'acqua dall'ampollina, con grande disappunto dei fedeli, tutti a dire: "Ma cce mmaletucati quiddhi vagnuni!".
Ma non era solo un gioco fare il chierichetto, per quel che io ricordo. C'era anche la coscienza di partecipare a qualcosa di sacro e di misterioso insieme che non aveva spiegazioni, che non si svelava mai, e che forse era bello proprio per questo.
Ma era nel mese di novembre, soprattutto, che si consumava, col sacrificio della messa, il pensiero tragico della nostra gente. Per un intero mese le messe si celebravano alle quattro del mattino, quasi ad assecondare quella comune credenza di abbinare i morti al buio della notte. I parenti del defunto da suffragare arrivavano in chiesa con un ritratto, uno di quelli enormi appesi alle pareti delle nostre case. In mezzo alla chiesa si disponeva un vero e proprio catafalco con i quattro ceri agli angoli; davanti, in posa maiestatis, quel ritratto. Insomma si ripeteva lo stesso rito del giorno della dipartita. Così mi toccava fare le levatacce per servire messa, ma rivivo ancora la seduzione di quelle scenografie lugubri e barocche nelle stesso tempo, di quel coro femminile che eseguiva il dies irae con un'intonazione popolare, quasi danzante, a sdrammatizzare quasi quella sequenza che, nel canto gregoriano, vuole tutta la sua tragica solennità. E poi quelle note surreali e ansimanti di un organo consumato, eseguite da lu Ninu te l'organu, involontaria musica d'avanguardia che frusciava da chissà quali mondi lontani; e ancora quel profumo estasiante di vero incenso, che rivestiva di un magico alone le sagome d'intorno; e quel senso di commozione e di partecipazione che si respirava, non certo inutile per gente che, se aveva una vita di stenti, sapeva pur vivere di ataviche passioni e coltivava nobili sentimenti.
Non c'era cerimonia a cui non partecipassimo noi chierichetti. Oltre alle messe e alle funzioni serali, c'erano i battesimi, le cresime, i matrimoni, le processioni, i funerali. Per non dire che la domenica, dopo la seconda messa, si andava in giro per le case a farsi donare una punta d'olio per la lampada del Sacramento; prima della Pasqua poi si accompagnava don Salvatore a benedire le case. C'era una gara tra noi per stare nelle cerimonie, come se la partecipazione al rito desse un senso al nostro quotidiano, al nostro essere ragazzi del più anonimo paese d'Italia.
Non nascondo che, a distanza di tempo, questo attaccamento al rito mi è rimasto. Il sacro, a mio giudizio, si trova in tutte le cose che guardiamo e tocchiamo. Io l'ho imparato in chiesa, in quella liturgia dei gesti, delle parole e dei suoni che trasformavano e rendevano grande e glorioso tutto ciò che mi circondava. Non abbiamo, oggi più che mai, bisogno di riti, ora che gli ideali collettivi sembrano scomparsi? Ora che ognuno di noi si è rintanato nelle proprie case a coltivare stupide solitudini e interessi particolari?
A proposito del campanile, ho un ricordo che qui non voglio tralasciare. Tutti sanno che prima, di campanili, ce n'erano due. L'altro fu abbattuto da un fulmine, esattamente in un tardo pomeriggio del 31 gennaio del 1962. Questa data non l'ho mai dimenticata, perché, accanto al danno del campanile, un'altra tragedia fu evitata, e molti dissero che si trattò di un miracolo. Quel giorno, a quell'ora, io ero seduto alla mia scrivania, a studiare, nel seminario di Nardò. Faceva brutto tempo, ed ecco, all'improvviso, un tuono, ma un tuono così forte che io e miei compagni restammo a bocca aperta, quasi avessimo scampato un pericolo. In realtà, quel tuono si era abbattuto a sei km di distanza sulla chiesa di Collemeto, aveva frantumato un campanile ed era penetrato all'interno come un fuoco divoratore, bruciando e devastando perfino le strutture portanti.
Quella sera mia madre aveva fatto celebrare una messa a San Giovanni Bosco, del quale era devota. In chiesa aveva portato anche i miei fratellini. La messa in realtà era stata talmente disturbata dal maltempo, con lampi, tuoni e continue interruzioni di corrente, che don Salvatore decise di tagliar corto con le preghiere finali e mandare via i fedeli in tutta fretta. Questi, uscendo, avevano appena varcato la gradinata d'accesso che… eccoti il fulmine! Per mia madre fu un miracolo di san Giovanni Bosco. Mi raccontava pure che per la larga strada del paese rotolavano come delle grandi palle di fuoco. Un fulmine insomma che equivaleva a un terremoto. Certo, quella sera qualche presentimento deve avere attraversato don Salvatore: ci sarebbe stata una strage altrimenti.
Ecco, io ho un sogno: il ripristino del campanile abbattuto. Mi piacerebbe che la chiesa riprendesse la sua facciata simmetrica che aveva una volta.
Rispetto a tutte le chiese del Salento, che sono pur belle e barocche, la nostra chiesa si distingue per uno stile insolito. Richiama tanto (ma più quando c'erano i due campanili) certe chiese di missioni lontane, per lo più latino americane, che la fanno sembrare quasi un avamposto di terre colonizzate, ancora da convertire, dandole quell'aspetto esotico che la fanno unica. Tra l'altro è una delle ultime chiese ad essere stata costruita con i classici criteri di un tempo, di gusto classico, un gusto che non muore mai, fuori com'è da ogni moda.
La nostra chiesa infatti è lì, è lì da sempre, come se ci fosse sempre stata, non sapresti dire neppure quanti anni abbia. La sua presenza, la sua eterna giovinezza è il contraltare della nostra caducità, ma anche l'emblema della capacità degli uomini di modellare con le proprie mani i sogni e gli eventi della vita; quel desiderio di eternarsi e di sconfiggere la morte.
Voglio spendere ora poche righe per don Salvatore, che ci ha lasciato giusto qualche anno fa. Avrebbe meritato, a questo punto, di vivere qualche anno di più, per godersi la festa del cinquantenario. Dico questo perché la storia di don Salvatore è la storia della chiesa: i muri, le volte, ogni angolo della chiesa, ogni pietra, tutto parla di lui.
Don Salvatore era una persona colta, discettava di greco, latino e teologia con estrema familiarità. Lo era in un paese dove ancora regnava l'analfabetismo. Lui fin da subito scese dal suo piedistallo, non amava accomunarsi a gente di potere, né approfittarsi del prestigio sociale di cui un prete allora godeva. Rimase quel figlio di contadini che era e preferì confondersi con gli umili, semplice tra i semplici. Non era raro trovarlo infatti in osteria a bere e a giocare con chi aveva speso un giorno di duro lavoro. S'intratteneva spesso nelle case, per strada a dare consigli, a risolvere situazioni di famiglie disagiate. Quante volte l'abbiamo visto parlare e scherzare in piazza con gente che provava anche a canzonarlo. Lui non si offendeva mai, sapeva anche ridere di se stesso. Era un uomo pacifico, ma sapeva all'occorrenza essere severo: non sopportava che della gente, per esempio, frequentasse la chiesa per motivi estranei alla fede, e non era raro che la rimbrottasse direttamente dall'altare. Era un uomo alto, slanciato, i suoi passi per strada erano falcate: fu così che nacque il detto affettuoso Papa Tore cu 'nnu scancu essi fore, detto che è entrato nella storia del nostro folclore.
Quando il giorno era finito e tutti tornavano a godersi il tepore familiare in attesa della notte, don Salvatore si ritirava nella sua canonica. La finestra della sua camera si affacciava su Piazza Italia. Quante volte, passando, abbiamo intravisto le fessure di luce dietro gli scuri: don Salvatore aveva ripreso le sue letture classiche, che, insieme alla fede, dovevano essere una buona panacea per le sue notti solitarie. Forse, anche sulla notte tarda, lui era ancora lì, a vegliare sul gregge che gli era stato affidato. Qualcuno, pensando alle fessure di luce, si sarebbe rivoltato tranquillo nel letto, come a sentirsi protetto.
Don Salvatore non era un santo, se per santo s'intende lo star rintanato a pregare e a meditare, isolato dal mondo. A lui mi piace pensare come a una presenza importante, come a un compagno di viaggio che ha segnato le tappe della nostra vita. Non mancava certo di qualche difetto: anche lui aveva le sue debolezze. Ma proprio per questo ha impersonato una umanità vera, sincera, proprio per questo era possibile entrare in familiarità con lui, stargli vicino senza remore, senza soggezione alcuna.
Erano anni in cui i nostri genitori, gravati da tante fatiche, non avevano molto tempo per la nostra educazione. Don Salvatore ha saputo tenerci raccolti, ha saputo educarci. Forse oggi non ce lo ricordiamo, ma sicuramente ci sono dei valori nella nostra vita che ci derivano dai suoi insegnamenti.
C'è un episodio che testimonia da che parte stava don Salvatore. Un giorno, a servire la messa al matrimonio della figlia di un ricco signore di Santa Barbara, si portò appresso una banda numerosa di chierichetti. C'ero anch'io tra questi. Dopo la cerimonia fu offerto un sontuoso rinfresco in una grande sala. Noi tutti a bocca aperta di fronte a tanto sfarzo e leccornie da gustare. Stavolta non si trattava più di rotolarsi per terra per raccattare i confetti lanciati sugli sposi, come si usava a Collemeto. Don Salvatore pretese un posto a sedere per ognuno di noi che, privi di abiti adeguati per l'occasione, ci salvammo lasciandoci addosso le vesti di chierichetto. Con poca dimestichezza nell'uso delle stoviglie, capitò che uno di noi ruppe un pregiato piatto di porcellana. Ci furono delle rimostranze per questo, ma don Salvatore intervenne in nostra difesa, a difesa della nostra disarmante semplicità, e non poteva essere un piatto rotto a rompere l'incantesimo che stavamo vivendo.
Personalmente, a don Salvatore, se penso al mio corso di studi, devo pure qualcosa. In seminario non nascondo che ero un tipo ribelle, non soffrivo certa disciplina fine a se stessa, di ogni cosa volevo farmene ragione. L'ultimo anno (ne avevo 16) rischiai l'espulsione, col rischio di perdere esami ed anni di studio. Quale mio parroco, don Salvatore fu convocato per essere informato del provvedimento. Lui, al cospetto del rettore, allargò le braccia come per sdrammatizzare: "Ma non è un cattivo ragazzo … è solo vivace… io lo conosco… ha preso da suo padre!".
Il giorno del suo funerale, nella calca della chiesa c'ero anch'io. Se pure in fatto di fede ho coltivato negli anni un certo scetticismo, quel giorno non potevo mancare. Degli oratori si avvicendavano al microfono per rendere le loro testimonianze. Ero lì per lì per farlo anch'io, ma sono stato trattenuto da un moto interno di commozione. Forse sarebbe bastato dire a tutti: "Don Salvatore appartiene alla storia di Collemeto, di noi qui presenti e di quelli che verranno. I muri di questa chiesa non smetteranno di parlare di lui, un uomo che a tutti ha regalato un sorriso e una di quelle pacche sulle spalle come solo lui sapeva dare". Ecco, le belle pacche di don Salvatore era l'ultima cosa che avrei voluto dire.
Civita Castellana, 12 ottobre 1999
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IL BAMBINO DAI BEI* OCCHI CHIARI

È una storia di circa venti anni fa, quando la biblioteca si trovava al primo piano del Palazzo Andosilla, all'inizio di Via Roma (oggi Via SS. Giovanni e Marciano). Vi si accedeva da un cortile il cui ingresso era sbarrato da un enorme e sgangherato portone. Era, mi pare, un primo pomeriggio caldo di fine giugno, l'ora in cui i bambini che abitavano nei paraggi, approfittando del poco traffico e della pennichella dei genitori, davano sfogo ai loro liberi giochi sotto casa schiamazzando e rincorrendosi per le vie, azzuffandosi e, perché no, facendo un salto in biblioteca. Toccava vederli, dopo aver fatto le scale di corsa: mi si presentavano davanti con tanto di fiato, il viso e i capelli grondanti sudore.
Erano piccoli, al massimo sette-otto anni, e il loro scopo non era proprio quello di fare ricerche o leggere, ma tuffarsi tra i loro libri, trovare il più bello e colorato e contenderselo al grido di l'ho visto prima io!, tirandoselo ognuno dalla propria parte. E sempre mi toccava intervenire per dirimere le questioni e assicurarli che di libri ce n'era per tutti. E si portavano via i libri in prestito, ma per loro era come aver vinto un giocattolo alla riffa, e scomparivano rotolando per le scale, se non addirittura scivolando dal parapetto in muratura con gran chiasso. Io, dalla finestra, più che i ragazzi, fissavo trepidante quei libri che brandivano in mano come trofei: chissà, speriamo bene, mi dicevo: che li leggano almeno!
Ma ci fu un primo pomeriggio, un primo pomeriggio assolato di fine giugno, che non dimenticherò mai, e il cui ricordo ancora mi strugge. Ero lì a ticchettare sulla vecchia macchina da scrivere, quando un vociare in cortile mi preannunciò il sopraggiungere della solita banda di ragazzini. Dalle scale mi arrivavano voci concitate. Sentivo un "Dài! sali! cammina! mo' so' cavoli tui!" Ancora: "Così te 'mpari, mo' je lo devi pagà se no te dà un sacco de botte!"
Storie di bambini, pensavo, continuando nel mio ticchettio, e non m'ero accorto che la banda era già sopra, nel mio ufficio, e… "Eccolo! eccolo! nun voleva salì! Te l'avemo portato: fatte dì che ha combinato!"
Alzai la testa e la scena che mi apparve era a dir poco insolita: un bambino braccato tenuto a forza per le braccia da due più grandicelli; un terzo gli stava dietro per trattenergli ogni via di fuga.
"Fatte dì, fatte dì che ha combinato!" insistì quello che dava l'idea del capobanda indicandomi il piccolo malcapitato "Mo' tocca che paga un sacco te sordi" finì per sentenziare.
Ma, sinceramente, non diedi molto ascolto a quelle accuse o minacce profferite; fui attratto, invece, da quel bambino che, simile a Pinocchio, se ne stava come fra due carabinieri in erba. La faccia scura e spaurita faceva risaltare i due occhi chiari e luminosi che mi fissavano dal basso in alto come a chiedermi pietà. E mentre i compagni continuavano a sbraitare, lui se ne stava muto, come rassegnato a subire qualsiasi pena gli sarebbe stata inflitta.
"Lasciatelo stare!" ordinai. I ragazzi ubbidirono. Il bambino, stranamente, non approfittò per darsela a gambe, ma restò lì, in silenzio, a fissarmi con i suoi bei occhi chiari.
"Insomma volete dirmi che è successo?"
"Ha stracciato il libro della biblioteca e l'ha spiaccicato pe' terra!" assicurarono all'unisono i piccoli carabinieri.
"È vero che hai stracciato il libro?" chiesi al bambino scrutandolo in quegli occhi smarriti e regalandogli un mezzo sorriso. Ma lui niente.
"Adesso voi uscite dalla stanza!" intimai agli altri "Me la sbrigo io con lui."
"Guarda che se mi dici che hai stracciato il libro, non ti faccio niente, sai? Sono cose che possono capitare. La prossima volta magari cercherai di stare più attento, così il libro lo legge anche un altro bambino" lo rassicurai piegandomi all'altezza dei suoi occhi.
"Lo hai stracciato?" ripetei, e finalmente mi fece cenno di sì con la testa.
"Allora torna a casa, riportami il libro e così vediamo di ripararlo in qualche modo. Vai! Io ti aspetto qui." Fu un attimo: si voltò e se la diede a gambe; dai vetri della finestra lo seguii mentre si precipitava per le scale e scappava lungo il cortile. Conoscevo quel bambino, era venuto altre volte, stava di casa a Via del Governo Vecchio.
Aspettai invano. In genere, quando un libro non torna, mi cruccio, per non dire altro. Quella volta, però, non so perché, non mi davo tanto pensiero: come se quel bambino, braccato a quel modo e con quella faccia così spaurita, avesse pagato il suo prezzo.
Trascorsero tre lunghi giorni assolati, poi, improvvisamente, un tam tam, una notizia ferale che sconvolse la città: due bambini avevano perso la vita scivolando in una marrana, mentre giocavano dalle parti di Fontana Quaiola. Uno di loro era proprio il bambino di Via del Governo Vecchio.
Oh potesse tornare un giorno quel visetto scuro dai bei occhi chiari: lo colmerei dei libri più belli e colorati, sia pure col permesso di stracciarli o gettarli per terra o macchiarli…


* Davanti a termine che comincia con vocale, "bei" dovrebbe essere "begli"... ma mi suona meglio "bei": licenza!

Civita Castellana, giugno 2004