mercoledì 1 ottobre 2014

I salentini a Civita Castellana / Ritorno alla Tenuta Terrano: le foto di ieri e le foto di oggi.



  1. Nel 1965 la mia famiglia emigrò da Collemeto nel Salento
    a Civita Castellana per la coltivazione del tabacco. Si calcola
    che almeno cinque mila salentini a quel tempo siano emigrati
    nell’arco di 15 anni nel Viterbese. I primi due anni furono
    durissimi, l’alloggio cui ci aveva destinato il primo proprietario
    terriero era malsano, privo di servizi, praticamente una stalla.
    Dopo due anni ci trasferimmo nella Tenuta Terrano dove il nuovo
    proprietario ci fece alloggiare in una casa da cristiani. Nella Tenuta
    c’era un concentramento di almeno 500 salentini. Coltivammo
    tabacco per altri otto anni, fino al 1975, quando i miei genitori 
    decisero di tornare a Collemeto. Noi figli restammo perché nel 
    frattempo avevamo trovato un lavoro. Per tanti anni non sono 
    più passato dalla Tenuta Terrano e questo benché dalla mia 
    finestra scorgo ogni giorno in lontananza la torretta della villa 
    dell’allora proprietario terriero. Negli anni Sessanta ero munito 
    di un’irrisoria macchina fotografica in b/n grazie alla quale, però, 
    ritrassi i miei e lo scenario che si presentava alle loro spalle che 
    documenta la vita ordinaria nella Tenuta e alcune fasi della 
    lavorazione del tabacco. Ma ecco che uno di questi giorni, munito 
    di buona fotocamera stavolta, mi sono messo in cammino per 
    arrivare alla tenuta. Il cuore mi batteva forte quando ho fatto 
    ingresso nel viale che portava ai tanti caseggiati, compreso 
    il mio: vi alloggiavano in ordine sparso tante famiglie salentine 
    e alcune calabresi. Dall’ingresso della Tenuta la mia vecchia 
    casa distava un chilometro. Non ero sicuro di riuscire a dirigermi 
    verso il mio casolare: ero tentato di tornare indietro tale era 
    l’emozione che mi assaliva. E sì, perché era come tornare sul 
    luogo della triste avventura dei miei, come essermi messo in 
    viaggio per trovare mio padre, mia madre, i miei fratellini. 
    I casolari che avvistavo d’intorno ormai tutti abbandonati,
     né si vedeva anima viva all’orizzonte; un forte vento invece 
    che ululava quale colonna sonora col sole che dardeggiava a 
    picco. E quando sono arrivato alla casa dove abbiamo abitato
     e patito per tanti anni, nel silenzio che regnava d’intorno sono 
    apparsi tutti i miei fantasmi. Sì, avevo bisogno di sfatare quel 
    buio oltre la siepe. Ho ripreso quindi con la fotocamera gli stessi 
    scenari di allora, poi ho sostato per un’ora circa davanti al mio 
    casolare in un silenzio irreale immaginandomi visi e situazioni 
    così remote. Intorno non più la terra battuta da uomini e mezzi, 
    ma l’erba spontanea che dava l’idea del triste abbandono. Ho 
    desiderato, per assurdo, di ritornare ad abitare nel mio casolare, 
    quasi a farlo rivivere in una seconda puntata in compagnia di volti
    e scenari di un tempo. Ah, la nostalgia! E sì, perché non si stava da re, 
    ma c’era un mondo semplice e vero che era la vita, quella che, a dispetto 
    del falso progresso, valeva la pena di vivere. Con la mente carica di 
    mille visioni e pensieri, mi sono incamminato poi sulla via del ritorno e, 
    per l’ultima volta, mi sono voltato e m’è venuto spontaneo fare un saluto, 
    quasi che in fondo, laggiù, mia madre stesse sventolando un fazzoletto. 
    Tornato a casa, ho confrontato le nuove foto a colori della Tenuta Terrano 
    con quelle in bianco e nero scattate negli anni ’60-’70. E allora m’è venuta 
    un’idea, quella di porre a confronto gli stessi scenari corredati da didascalie 
    che narrano una storia. Si tratta di un documento fotografico sull’emigrazione 
    dei salentini a Civita Castellana anche attraverso la storia della mia famiglia. 
    Per non dimenticare un periodo storico che appartiene non solo a Civita 
    Castellana, ma a tutto il Salento e l’Italia tutta.

    Ed ecco più di 60 documenti fotografici con le didascalie che narran
    un paesaggio e una storia.

    APRILE 2012. Entro camminando nel viale d'entrata della Tenuta Terrano, Azienda De Fenu, Via Terrano n. 31, distante cinque km da Civita Castellana, dove la mia famiglia ha vissuto otto anni per la raccolta del tabacco, dal 1967 al 1975.


    APRILE 2012. A sinistra uno dei tanti caseggiati ormai abbandonati e senza vita che si vedono lungo la strada bianca prima di arrivare al mio vecchio casolare.

      
    APRILE 2012. Percorro la strada bianca che porta al mio caseggiato, detto San Massimo, che s'intravede appena in fondo. Mille volte da qui ho percorso a piedi i cinque km per recarmi a Civita Castellana, e altrettanti per tornare, non avendo neanche uno straccio di bicicletta.

      
    APRILE 2012.  Altri casolari abbandonati che si vedono percorrendo la strada bianca che porta al mio.


    APRILE 2012. S'intravede meglio il mio caseggiato là in fondo. La tentazione è quella di scappare, ma una brezza di vento addolcisce le mie emozioni. 

    APRILE 2012. Avanzo ancora: a sinistra scorgo il casale dove abitava Domenico Amato e la moglie Mafalda, due contadini calabresi. Domenico, il mio amico illetterato e il simpatico filosofo della tenuta. Lo chiamavamo capitano per il vezzo di coprirsi la testa col suo vecchio berretto militare, un residuo della seconda guerra mondiale cui aveva partecipato. Al berretto aveva aggiunto una sottile striscia rossa per dichiarare al mondo la sua fede comunista. Era di Carfizi, colonia albanese, e aveva partecipato ai fatti di Melissa per l'occupazione delle terre nel 1949. Una donna, Angelina Alfano, e due uomini, Giovanni Zito e Francesco Nigro, furono colpiti mortalmente alla schiena. 
      
    APRILE 2012. Sono quasi arrivato. Sulla destra mi appare il capannone dove s'infilzava il tabacco e si stagionavano li chiuppi appesi alla volta del soffitto.


      APRILE 2012. Ed ecco la nostra casa colonica nella Tenuta Terrano a Civita   
    Castellana in stato di abbandono, intorno tutte erbacce. Si scorge ancora un cavo 
    pendulo della nostra vecchia TV in b/n. Quel rotondo grigio sulla parete di destra corrisponde al caminetto interno che presenziava in cucina. A furia di scaldarci con la legna, dopo alcuni anni il muro si sgretolò fino ad aprirsi, sicché mio padre dovette ricostruire il muro lasciandovi all’esterno il colore della malta usata il cui colore ancora resiste dopo tanti anni. Non si vedono più gli infissi delle finestre, ché il proprietario li ha nascosti con dei pannelli grigi per proteggerli dalle intemperie.

    OGGI 2012 E IERI 1967: LO STESSO SCENARIO. Era una "bifamiliare" dove alloggiavano due famiglie: la mia sul davanti, e dietro quella dei Mariano. In questo casolare abbiamo vissuto per otto anni. Precedentemente abitavamo nella tenuta di un altro proprietario terriero dove l’alloggio era proprio malsano e buio. Capitò un giorno che, mentre si era intenti a raccogliere tabacco su un pezzo di terra che fiancheggiava la strada, si trovò a passare un proprietario terriero la cui tenuta stava alcuni chilometri più avanti, verso Fabrica di Roma: era De Fenu. Rimase colpito dalla nostra destrezza nel raccogliere tabacco e si presentò. Ci promise che se fossimo diventati suoi coltivatori avrebbe costruito per noi una casa colonica nuova con acqua e servizi. E così fu. Le porte erano di ferro e i muri sottili, per cui l’inverno, con tutto che c’era il caminetto, era terribile lo stesso, ma almeno c’erano i servizi essenziali, perfino la doccia. Lasciammo la casa nel 1975: noi figli avevamo ormai un lavoro e i miei genitori ritornarono a Collemeto. Ma con la legge sull’abolizione dei contratti di mezzadria e di compartecipazione, la tenuta si svuotò, visto che al proprietario non conveniva più far coltivare tabacco sulla propria terra.

     
    OGGI 2012 E IERI 1968: LO STESSO SCENARIOIo, Alfredo, in canottiera a 17 anni. Il primo ricordo (la cosa mi fa ancora tenerezza) è quello di certe mattine quando ci svegliava la pioggia. Eravamo talmente ragazzi che per noi era una festa: e già, perché quella mattina non si sarebbe raccolto tabacco perché bagnato. Un dono poter dormire qualche ora in più. Eravamo proprio incoscienti noi ragazzi, ché in testa ai nostri desideri c’era sempre la pioggia a ogni risveglio. E un anno venne la grandine che spazzò via tutto il tabacco alto e rigoglioso. Mio padre e mia madre piangevano, noi ragazzi, invece, di nascosto a fregarci le mani ignari e felici. 

          
    OGGI 2012 E IERI 1968: LO STESSO SCENARIOIntorno alla Tenuta di Terrano c’è un paesaggio di forre, di torrenti e di fitta vegetazione spontanea, un paradiso terrestre ancora intatto. Ogni tanto mi recavo in queste forre per leggere, scrivere, oppure in cerca di solitudine e di ispirazioni varie. Ma andavo anche a pesca di gamberi di fiume catturandoli con le sole mani camminando nel guado contro corrente.
    OGGI 2012 E IERI 1968: LO STESSO SCENARIOMia madre Lucia che versa il granturco alle sue galline. Una delle più belle eredità che ho avuto da mia madre è stata la cucina. Era una grande cuoca e il parroco di Collemeto chiamava sempre lei quando arrivava a Collemeto il vescovo in visita pastorale. E doveva preparargli un pranzo a regola d’arte. 

      
    OGGI 2012 E IERI 1968: LO STESSO SCENARIOSono il primo da sinistra con i miei fratelli Aldo, Angelo ed Eugenio. Eccetto Aldo, che tornò a Collemeto negli anni ‘80 per fare l’ispettore di polizia a Galatina, gli altri sono rimasti a Civita Castellana: io bibliotecario, Angelo ed Eugenio ceramisti. Ci vogliamo bene ed è sempre un piacere ritrovarci intorno a una tavolata e tornare bambini nella lingua, nelle storie, nelle musiche, nei ricordi belli e tristi.

      

    OGGI 2012 E IERI 1968: LO STESSO SCENARIOArrivai a Civita Castellana da seminarista dopo aver preso la licenza ginnasiale (allora c’erano gli esami in V ginnasio). Poiché mancavano solo tre anni alla maturità, fui ‘graziato’, mi si concesse di continuare gli studi. Ma per quattro mesi all’anno (da giugno a settembre) e per dieci anni consecutivi, non sono stato risparmiato nel lavoro del tabacco. Ed è stato bene così. Anche quando a 21 anni ho iniziato a lavorare in biblioteca non ero esentato dalla fatica. La mia prima vacanza l’ho conosciuta a 25 anni, dopo che i miei smisero di fare tabacco e se ne tornarono al paese. Rispetto ai miei fratelli, in ogni caso, riconosco di essere stato più fortunato. Ma un prezzo l’ho pagato anch’io e, a dirla tutta, l’ho pagato volentieri. 

      
    OGGI 2012 E IERI 1968: LO STESSO SCENARIOMio fratello Aldo, il secondo. Quando siamo arrivati a Civita Castellana aveva appena preso la licenza media. Lui avrebbe voluto continuare, ma non gli fu possibile. Ancora oggi ha un grande rimpianto, anche perché a scuola lui era il primo della classe. A 18 anni dovette andare coi muratori, ma la mattina gli toccava alzarsi all’alba lo stesso per la raccolta del tabacco. Insomma, a sera, di giornate ne aveva fatte due. E così fece domanda per entrare in polizia, e, brillante com’era, a 25 anni era già maresciallo; da lì a qualche anno ispettore. Angelo ed Eugenio, invece, rispettivamente terzo e quarto, abbandonarono la scuola durante l’anno scolastico quando i miei partirono per Civita Castellana.

     

    OGGI 2012 E IERI 1968: LO STESSO SCENARIOLa mia famiglia. In piedi: mamma Lucia, papà Giovanni, Angelo, Aldo; inginocchiati: io Alfredo ed Eugenio. Si raccoglieva la mattina dalle 4 alle 10, poi la fatica di riportar fuori i pesanti telai del tabacco chiusi nel capannone la sera prima, quindi s'iniziava l'infilzatura delle foglie che si protraeva fino alle 18 quando si tornava a raccogliere tabacco fino al tramonto. La mattina presto si andava sul campo con un solo un caffè all’alba. Si tornava a casa con una fame da lupi. Quelle fette di pane leggermente bagnate e condite da mia madre con olio, pomodoro, origano, sale e spicchi di cipolla, erano la nostra colazione. E anche se oggi sono passato a colazioni più ‘civili’, il sapore di quel pane e di quel pomodoro non è stato ancora superato.
    OGGI 2012 E IERI 1968: LO STESSO SCENARIOIn piedi: io Alfredo, segue mio cugino Cosimo seminarista (oggi parroco di Collemeto), mia madre Lucia e mio fratello Aldo; in basso, papà Giovanni con i miei fratelli Eugenio e Angelo.


    OGGI 2012 E IERI 1968: LO STESSO SCENARIOMia madre Lucia si vedeva come spersa lassù nella Tenuta Terrano e diceva sempre: «Ho una casa tanto bella e comoda al mio paese, prima stavo in mezzo alla gente e sono venuta qui a soffrire di solitudine.»

      

    OGGI 2012 E IERI 1968: LO STESSO SCENARIOAvevo 18 anni nella foto. Alzarsi ogni mattina prima dell’alba era dura. Mio padre si svegliava ch’era ancora buio e si recava a perlustrare la striscia di terra per la raccolta, quella con le foglie di tabacco più mature. La pianta veniva sfogliata dal basso in alto, per ogni pianta si sfogliavano sei-sette foglie, tutto il campo veniva mediamente passato sei volte. Le foglie, a seconda della loro altezza, avevano un nome: frunzone quelle più basse, poi, salendo, quartaterzasecondaprima e primiceddha. Le prime raccolte ci costringevano a stare più chini. Per sopportare il piegamento s’appoggiava l’avambraccio sinistro sul ginocchio, che così reggeva il peso del corpo. Nel punto d’appoggio si formava un vero e proprio callo. Con l’ultima raccolta, prima e primiceddha, finalmente si poteva stare in piedi e sembrava quasi una passeggiata; così veniva anche più facile parlare e cantare, avendo come colonna sonora il monotono ticchettio delle foglie sfrondate.


    OGGI 2012 E IERI 1968: LO STESSO SCENARIOI miei genitori in posa sulla strada bianca che fiancheggiava la nostra casa. Torno a Collemeto una volta all'anno anche per i miei genitori che non ci sono più e che stanno lì al cimitero uno accanto all’altro, immobili, che ti fissano dai riquadri e pare che mi dicano ogni volta: Eh, fìju, sta tte rretiri? Te nde vai sempre ramingu e ne lassasti cquai suli suli.


    OGGI 2012 E IERI 1969: LO STESSO SCENARIOMia madre Lucia intenta a cucire e a rattoppare i panni davanti alla strada bianca nei pressi della casa colonica. Era bravissima a cucire mia madre. Da ritagli di stoffe o in disuso, lei ti confezionava pantaloni, camicie, mutande, maglie di lana (quelle che non sopportavi). Sfilava vecchi maglioni di lana e con un gioco di ferri faceva nascere coperte per l’inverno, oppure calzettoni di lana con i legacci, prese per la cucina, mantelli da donna per l’inverno. Con la mia tonaca nera da seminarista si cucì un vestito per portare il lutto alla morte di suo padre Pasqualino. Con le mie camicie senza colletto, sempre da seminarista, vennero fuori mutande e strofinacci. Ma era brava anche con l’uncinetto, il ricamo, il tombolo. A Collemeto aveva una macchina da cucire, che però non potette portarsi a Civita Castellana. E ne soffriva per questo. Nel mio guardaroba conservo ancora dei maglioni di lana pungenti, calzettoni di lana, prese per la cucina. Per non dire alcune bambole alle quali confezionava dei vestitini in miniatura.



    OGGI 2012 E IERI 1970: LO STESSO SCENARIOA destra mia madre Lucia scoperta a pulire uno sgombro. A sinistra la casa di Terrano fiancheggiata dalla strada bianca che portava alla villa del proprietario. A destra e a sinistra c’erano le coltivazioni di tabacco. Questo luogo, dove ho trascorso tanti anni con i miei genitori e i miei fratelli, mi procura la stessa suggestione di trovarmi davanti a un pezzo di Collemeto che si è trasferito a Civita Castellana. Qui, oltre ai miei, vivevano altri parenti e tante famiglie provenienti da paesi salentini diversi. Un Salento in miniatura insomma. 



    OGGI 2012 E IERI 1970: LO STESSO SCENARIOMio fratello Eugenio, detto lu cacanitu perché l’ultimo nato.


    OGGI 2012 E IERI 1970: LO STESSO SCENARIOSosto davanti al capannone del tabacco e ho per le mani due pollastrelle. Di sicuro era passato un venditore ambulante di pollame vivo e mia madre mi aveva incaricato di chiuderle nel pollaio.


    OGGI 2012 E IERI 1972: LO STESSO SCENARIOA destra il capannone con i telai del tabacco appoggiati alla parete. Mia madre Lucia che usciva dal pollaio per rientrare a casa. Per quella storia del gallo di don Silvano, consiglio di assistere al video Leccesi c’era una volta / Il gallo di don Silvano  tratto dal blog Spigolature Salentine.


    OGGI 2012 E IERI 1972: LO STESSO SCENARIOMio fratello Eugenio scherza davanti casa con mio cugino Antonio Mariano, che è stato mio compagno di scuola alle elementari. Alle loro spalle il magazzino e il pollaio. D’inverno, quando non c’era la pressione del tabacco, la domenica pomeriggio noi ragazzi organizzavamo in casa delle feste da ballo con dei dischi per ballare lo shake o i lenti degli anni Sessanta, detti ‘balli sul mattone’. Arrivavano anche le ragazze, ma eravamo tutti al di sotto dei 20 anni. A Terrano c'erano circa 50 famiglie circa, per cui di ragazzi ce n’erano tanti. D’estate, la domenica pomeriggio, si puntava anche al lago di Trevignano; chi non disponeva di un motorino s’accontentava delle acque dei vari torrenti che scorrevano sotto i fossi (le forre) nei punti dove la corrente si radunava in piccoli bacini. Si provavano anche i tuffi, come d’abitudine dagli scogli del nostro mare giù nel Salento, ma, per via del fondale basso, non mancavano le capocciate contro la sabbia… Me ne ricordo una! Beh, c’era anche una buona dose d’incoscienza. Si stava anche dietro alle ragazze: civitoniche o salentine non faceva differenza. Allora era di moda lo struscio in via Roma. Ricordo che alle otto di sera improvvisamente le vie si svuotavano: era ora di cena e i civitonici rientravano tutti a casa. I primi tempi, questa cosa che i civitonici scomparivano tutti insieme alle otto di sera era una vera stranezza per noi salentini.

    OGGI 2012 E IERI 1973: LO STESSO SCENARIO. La finestra che corrispondeva alla cameretta in cui dormivamo noi quattro fratelli. Da notare i telai ripiegati e accatastati, le bombole del gas e il carrello con cui si trasportava il tabacco raccolto nel campo che veniva stretto in una spaziosa vecchia coperta detta manta. Sullo sfondo il casale più vecchio del caseggiato San Massimo.

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    OGGI 2012 E IERI 1973: LO STESSO SCENARIOLa finestra di sinistra era la cameretta dei fratelli Mariano, quella di destra dei fratelli Romano.


    OGGI 2012 E IERI 1974: LO STESSO SCENARIOIo e mia madre in un momento di gioia e di tenerezza.

     
    OGGI 2012 E IERI 1974: LO STESSO SCENARIOIo e mia madre... 



    OGGI 2012 E IERI 1974: LO STESSO SCENARIO.
    Nel giardino di papà
    sogno dei copiosi frutti
    il tuo amor ritrovato
    che rimpianto mamma
    parole ci insegnasti
    più grandi di te
    gesti e pensieri
    donare senza pretese
    soffrire senza mai dire
    domani fra le tue albe
    svegli di già
    le belle tue albe
    che più non sanno
    di cupi tramonti.

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    OGGI 2012 E IERI 1975: LO STESSO SCENARIO. Mia madre che lava i panni davanti casa. Nel periodo della lavorazione del tabacco c’era soltanto la domenica pomeriggio per qualche svago, ma solo per gli uomini. Le donne no, le nostre mamme no. Le mamme approfittavano della domenica pomeriggio, quando tutti gli uomini erano usciti, per lavare la biancheria di una settimana, specie gli indumenti da lavoro sporchi del grasso del tabacco, un grasso maledetto che ti impregnava mani e indumenti. Era un super lavoro casalingo. Mia madre negli anni ha rimarcato sempre la solitudine di quei pomeriggi domenicali. Le donne perciò erano quelle che più pativano la fatica e l’isolamento. Gli uomini, per lo meno, i nostri padri, si recavano a Civita a piedi e passavano di osteria in osteria a farsi un bicchiere, giocare a carte, oppure puntavano sul Bar Sangallo che era il ritrovo dei salentini. Ritornavano a casa che era già buio ed erano sempre un po’ alticci… ma quei cinque chilometri a piedi li conoscevano a memoria ormai.


    OGGI 2012 E IERI 1975: LO STESSO SCENARIOCon mia madre Lucia vicini al lavatoio dove per tanti anni si è spezzata la schiena per lavare i panni di tutti noi. 


    OGGI 2012 E IERI 1975: LO STESSO SCENARIOUltimo anno di tabacco. Nella foto, mio padre Giovanni e mia madre Lucia davanti al capannone del tabacco; dietro, la mia 500 Fiat che poi finì a Collemeto. I miei genitori sono rimasti in questo luogo fino a quando io e i miei fratelli siamo diventati economicamente autonomi. Sono stato io stesso anzi a incoraggiarli a tornare al paese. «È tempo che torniate, che ci fate qui? Giù avete un pezzo di terra, una bella casa, c’è gente che parla come voi…». Sono tornati e hanno vissuto più da ‘cristiani’ gli anni che gli rimanevano da vivere. Ma quante lettere ci siamo scritti e quante telefonate. Spesso tornavo giù a sorpresa, anche dopo un anno. Erano emozioni, era festa, irripetibile la gioia.


    OGGI 2012 E IERI 1975: LO STESSO SCENARIO. La mia 500 di seconda mano. Sono in macchina e metto in moto: direzione Civita Castellana per raggiungere la biblioteca dove lavoravo. Ma c’era sempre qualcuno cui dare un passaggioEro uno dei pochi a possedere un’auto. Così anche chi doveva partorire d’urgenza si rivolgeva a me per correre al pronto soccorso. Mi bussavano anche di notte, un vero servizio d’ambulanza! Bastava poi mettere l’auto in moto che in tanti mi s’affollavano intorno per le ordinazioni: sale, zucchero, pasta, sigarette… perfino la posta. Le lettere arrivavano tutte a Piazza di Massa n. 52 presso il negozio di generi alimentari Becchetti, allora il primo entrando a Civita da via Terrano. La maggior parte delle lettere erano quelle d’amore destinate alle ragazze i cui fidanzati erano rimasti giù nel Salento oppure emigrati in Germania o in Svizzera. Quando ritornavo a Terrano con la spesa fatta e la posta, era tutto un corrermi incontro. Non dico la gioia delle ragazze per una lettera pervenuta o la delusione quando l’attesa era stata vana: roba che mi sentivo quasi colpevole della manifesta tristezza sul volto delle morose.


    OGGI 2012 E IERI 1975: LO STESSO SCENARIONella foto di destra mio padre Giovanni e sua cugina Felicetta Romano in un campo di burley. Fu l’ultimo anno di coltivazione del tabacco. Il tabacco, in verità, non ha arricchito mai nessuno  a Civita Castellana, giusto la speranza di un avvenire per i figli che restavano. 
    Fu gente di Collemeto emigrata a Civita Castellana alcuni anni prima a capacitare mia madre a partire. Mio padre invece era restio. E non gli si poteva dare torto, visto che emigrare a 52 anni, quanti ne aveva allora, non era cosa semplice. La verità è che papà da qualche tempo aveva perso il lavoro (commerciava in tufi da costruzione) e a casa si attraversava un momento difficile. Perciò Civita Castellana apparve come una soluzione.


    APRILE 2012. Un lato del vecchio caseggiato S. Massimo che dà sulla strada bianca. E’ visibile ancora la targa.


    APRILE 2012. Al di là dello strada bianca c'era l'orto di mio padre e il terreno per la preparazione dei semenzai del tabacco.


    APRILE 2012. La campagna intorno dove prima si coltivava tabacco.


    APRILE 2012. La campagna intorno dove prima si coltivava tabacco.

      
    APRILE 2012. La strada bianca in direzione Civita Castellana nel tratto in cui fiancheggiava la mia casa colonica. In questo punto mia madre s'affacciava sempre per un mio ritorno. E, quando accadeva, era un correre correre.


    APRILE 2012. Mi sono incamminato sulla via del ritorno. Mi volto per scattare l'ultima foto a quello che per me è un luogo dell’anima ormai. 

    FINE


    I COMMENTI DEI LETTORI



  2. Mi complimento per l’eccezionale perizia di Alfredo nell’impostare graficamente pagine e immagini al pari delle riviste culturali e dei volumi scientifici più pregiati.
    Perchè ci vuole capacità per far rivivere anche al lettore più distratto il proprio viaggio. Alfredo aiuta la nostra immaginazione prestandoci la sua, quella supportata da vecchie fotografie scaltre, quasi consapevoli della funzione che in futuro avrebbero avuto: materializzare la memoria.
    Quella di Romano non è una memoria qualsiasi, ma una memoria storica al pari di quella che nuota fra le pagine dei testi storici ufficiali. La mia mente vola d’istinto alle splendide e tristi immagini dell’emigrazione del popolo italiano verso l’America, alle vicende drammatiche degli Italiani in Crimea, dei deportati di ogni tempo, e si perde nei reportage fotografici dei casermoni di Aushwitz. Già, quei fabbricati austeri, quelle casupole documentate tra il 1968- ’75 e oggi da Alfredo mi iniettano una sensazione di solitudine, di abbandono, di confinamento. Certo, a Civita Castellana non c’era prigionia se non nel cuore, nè vessazioni crudeli se non nella diffidenza e nel disprezzo della gente del posto verso gli intrusi salentini o nello sfruttamento da parte dei proprietari terrieri di questa mano d’opera bisognosa e disperata. Ma c’era dolore e lo si legge a chiare lettere nelle parole e nei ricordi dell’autore, in quelle emozioni struggenti, nel rimpianto della vita di allora, vita semplice, ma solo attraverso gli occhi dell’adolescente Alfredo e non dell’uomo. L’uomo, infatti, rimpiange i tempi della famiglia unita, degli affetti più cari ancora in vita ad attendere il suo ritorno sulla strada bianca o a svegliarlo all’alba per anticipare i compaesani nella raccolta del tabacco, ma non può accettare l’ingiustizia di una vita da reclusi nè di una madre malata di nostalgia. L’uomo Alfredo sente la mancanza della spensieratezza dei suoi diciott’anni, quando ogni sacrificio non conosceva strade traverse o scorciatoie e quando la famiglia e il suo benessere occupavano ogni settimana di tutti quegli otto anni il primo posto in classifica. L’amore vince sempre, cambia sempre, cresce sempre.
    Alfredo Romano dimostra con la propria vita e il proprio passato che l’amore è l’unica motivazione valida per accettare rinunce, pesi e sofferenze, per trovare il bello anche nel brutto e l’accettabile perfino nell’impossibile. Quando oggi il nostro scrittore si volta indietro a lanciare l’ultimo sguardo lucido a Terrano e al suo passato, infinita è la dolcezza che lascia e si riprende da quelle coccole materne rimaste a vagare fra le pietre del casolare antico, dalle immagini rassicuranti dei suoi cari, presenze poste da Dio a segnargli la via che l’ha portato a noi oggi e a se stesso in ogni attimo della sua vita.
    Credo fermamente che la testimonianza di Alfredo Romano, come quella di tutti coloro che hanno messo a disposizione di tutti i ricordi e le esperienze vissute, possa essere annoverata come Patrimonio dell’Umanità e fiore all’occhiello della cultura salentina perchè non esiste pietra o mattone che non racconti una storia nè vita che non lasci un insegnamento.
    Quanto sarebbe bello e giusto osservare, a questo punto, un minuto di silenzio per i nostri predecessori coraggiosi! Facciamolo per onorare i Romano e tutte le famiglie di nostri conterranei e connazionali che hanno sbancato montagne per lasciare a noi una strada più larga e un cammino più facile. Facciamo in modo che non sia stato un sacrificio inutile!











  3. Alfredo Romano scrive:
    Mi chiedo a volte: ma come faremmo noi spigolatori senza Raffaella Verdesca? Devo ammettere che i suoi commenti hanno il pregio del tocco magico non dissimile da quello di un grande chef che, con un’ultima spolverata geniale, rifinisce un piatto che appaga non solo il palato, ma anche il naso e la vista. Raffaella insomma ce l’ha mandata qualche angelo buono per dispensare grazie a noi poveri mortali. Lei stessa è un dono e perciò guai a chi ce la tocca!

  4. Emilie Journo scrive:
    j adore

  5. Si, sono emozioni forti che anch’io ho provato quando sono tornato in Vico Trieste a Polistena, dopo tantissimi anni, a vedere la casa dove avevo abitato da piccolo per alcuni anni prima di essere ritornato a Reggio Calabria, mia città natale. Mio padre era invece salentino di Galatina (vicino casa tua a Collemeto quindi). L’emozione che si prova è fortissima e le lacrime sincere. Ma chi può capirci? Solo quelli come noi che vanno via dalla propria terra (io sono andato via per spirito di avventura) e dopo, col passar degli anni, li assale forte il desiderio di tornare indietro. Siamo uguali, Alfredo, le nostre emozioni sono quelle delle persone sensibili ed io ti ammiro.








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  7.  



    L’ATTESA
    (1979)
    ROSA CARUCCI
    ...Sento ancora la tua voce nella mia testa, voglio sentirla tutto il
    giorno, e intanto ti immagino camminare un po’ trasognato per quelle
    vie a me sconosciute eppure amiche perché accolgono i tuoi passi e i
    tuoi pensieri, che mi appartengono.
    Forse ti stai avviando verso casa, ecco che incontri un volto amico,
    ricambi il suo saluto, ma non è a lui che pensi, stai pensando a me, lo
    so, arriva fino al mio cuore il tuo pensiero e mi riempie la vita.
    Ora hai incontrato di nuovo Lei e devi fingere di essere un altro,
    diverso da quel che senti, ma è giusto così... so che ogni tanto la tua
    mano sfiorerà il tuo viso, allora potrò sussurrarti indisturbata tutto il
    mio amore.

    ...Anche oggi mi ero tristemente rassegnata ad un lungo silenzio,
    invece... miracolo! Come mi sei caro!! Me ne rendo conto ogni giorno un po’ di più, al tuo ritorno la gioia sarà tanto incontenibile per i confini della nostra isola che strariperà travolgendo tutti i naufraghi che le girano intorno.
    Sarà bello!! Questo pensiero mi aiuterà ad arrivare fino ad allora. Ti
    aspetto!

    ...Mattino di venerdì e tutto intorno regna un silenzio inconsueto, si
    odono soltanto gli uccelli, tanto che se chiudo gli occhi, davvero posso
    pensare di essere su di un’isola, ma ahimè! l’Isola è deserta e non c’è
    neppure la fresca brezza del mattino... Sob!! (anche quella devo
    sognare!).
    Ma se tutto intorno è solitudine, dentro di me sento un’affollarsi di
    sentimenti e sensazioni bellissime... l’amore, l’attesa, la dolcezza, il
    languore... il rimorso (anche questo diventa bello se lo posso
    sopportare) e allora ecco che all’improvviso il deserto diventa un
    fresco sottobosco e tra le fronde odorose del mirto e le solari ginestre
    scorgo la luce del tuo sguardo e non sono più sola. Ciao.

    C’è un pensiero che non mi dà pace... mi angoscia. Ma poiché è la
    conseguenza del mio amore per te, lo sopporto... Oh! come mi
    sbagliavo, come ero presuntuosa e sicura di me! Come mi sento fragile
    adesso.
    Mi hai più volte ripetuto che non dobbiamo pensare, ma vivere... (come
    non baciarti e accarezzarti). Ma oltre a questo non riesco ad
    immaginare altro se non il fondersi totale del nostro essere più
    profondo... Questo intendo  quando dico “Non cercarmi dove non


    sono”... ti sto aprendo il mio cuore in tutta sincerità.
    ...Spero che il tuo amore sia abbastanza grande per perdonare quello
    che può sembrare un grande egoismo e che invece è, come dici tu, un
    espediente per sopravvivere.
    Ti amo.

    Tornare ogni giorno e non trovarti ancora è come percorrere assetata
    una strada in salita al vertice della quale c’è ad attendermi una fresca
    sorgente.
    Oh! Com’è faticoso arrampicarsi, c’è il sole cocente che ti stronca le
    gambe, ma si può pensare che è lo stesso astro che scalda te, laggiù,
    su quei lidi assolati e allora ecco che mi diventa amico e posso
    pregarlo di catturare qualcosa di me e portartelo con i suoi raggi di
    fuoco.
    C’è la sete che aumenta ad ogni passo ma il suono dell’acqua che
    sgorga riesce già ad arrivare al mio orecchio e allora mi accorgo che la
    salita non è più così ripida e se anche lo fosse val la pena arrampicarsi
    con più tenacia...
    Un premio mi attende.
    Amore mi manchi, mi manchi da morire, oggi l’isola è più deserta che
    mai e ne sono felice perché posso concentrarmi solo sul pensiero di te
    e sognare un po’... immaginare la fine della salita e pregustare le
    sorsate d’acqua fresca a piene mani.
    Amore mi manchi ma sono felice (è possibile?). Sì perché mi sento
    tanto piena d’amore, perché ho l’opportunità di scriverlo e pensavo di
    non esserne più capace... tu che ne pensi? lo sono ancora?
    Amore mi manchi e ti amo di più!

    Eccomi di nuovo qui, dinanzi ad un foglio bianco pronta a riempirlo di
    miei pensieri per te.
    Sei sull’isola ma senza di me, eppure sono così vicina... chiudo gli occhi
    e riesco addirittura a sentire il tuo odore, il calore delle tue parole
    sussurrate sui miei lobi.
    Come ti amo!!! E’ più forte di me e di tutti i miei propositi! Ma è così
    bello abbandonarsi e lasciarsi vivere, non nascondersi dietro una
    maschera di paura che occhi “indiscreti” possano leggerti nel
    profondo... ora c’è qualcuno cui questo è concesso, sei tu!
    Grazie di esserci.

    MARIO DELLA VERSILIA
    Dove sei, amore, dove sei? Mi sono illuso vedendoti, abbracciandoti,
    baciandoti il primo giorno del mio arrivo, che ciò bastasse a placare il
    tempo dell’ansia e dell’attesa. Invece, “l’aver bevuto ad una fonte
    d’acqua fresca” come dici tu, ha solo accresciuto il desiderio. E così, fin
    dal primo mio mettere piede sull’isola, la possibilità di sentire la tua
    voce, o nuovamente abbracciarti, consuma le mie ore, i miei minuti.


    Amore, dove sei? Il cuore mi hai strappato e te ne sei andata
    lasciandomi tra muri e cose che mi parlano di te. Sì, sono solo, soffro
    di solitudine, amore. E’ che tu sei diventata essenziale, mi sento
    tagliato a metà senza di te. E quando parlo e agisco ho come
    l’impressione di essere monco: perché tu sei tutto per me.
    La verità è che sento di avere scoperto un tesoro e... sono diventato un
    avaro: lo vorrei tutto per me. Invece mi viene dato col contagocce, ma
    non ti nascondo che quando mi capita vado in delirio. Con te, amore
    mio, sono diventato l’avaro più avaro del mondo.
    Ogni mattina metto sul conto la possibilità di incontrarti, così cerco di
    farmi bello e profumato per te. Non trascuro di profumarmi sotto i lobi
    (mi piace quando me li mordi) e guardarmi allo specchio mettendomi
    nei tuoi panni: sei attraente? le piacerai ancora? non saranno troppo
    lunghi i capelli? e la bocca?
    Tutto questo stamane. Ma sarà così anche domani. Adesso però mi
    sento come lo sposo che si è preparato per la cerimonia... ma la sposa
    non arriva. Ah! sposa, sposa mia! Dove sei, amore? annaspi intorno
    all’isola forse? cerchi un approdo? Dài una voce: ti sentirò e allungherò
    la mano perché tu possa saltare dalla barca. Ti porterò nella mia
    dimora, per te ho un letto di lenzuola fresche e profumate, intorno c’è
    un concerto di uccelli. Sono certo però che adagiati e stretti e
    avvinghiati nelle fresche lenzuola, al nostro primo fissarci negli occhi,
    gli uccelli smetteranno di cantare: si farà strada una musica d’amore e
    loro saran tutti lì in prima fila. Il silenzio è l’unico biglietto che
    dovranno pagare, ma pretenderanno tutti i movimenti della sinfonia:
    prologo, adagio, andante, mosso e finale con moto. Vieni, amore!
    Stamane sul tardi è squillato il telefono ma al mio pronto hanno
    attaccato. Eri tu, amore? Mi è piaciuto pensarlo. Ho aspettato che
    squillasse ancora, ma invano. Nel frattempo il cuore mi batteva. Più in
    là invece ho provato io ma non c’era nessuno. Ancora adesso
    guardando il telefono mi verrebbe voglia di scagliargli un martello e
    gridargli: parla!
    Dove sei, amore? che cosa fai?
    Quanto darei ora per una tua carezza, quanto darei per passarti le mie
    dita sulla tua bocca aperta, quanto vorrei sussurrarti: ti amo ti amo ti
    amo. Ho tanto amore dentro che non so più contenerlo, mi straripa.
    Raccoglilo, amore, ché non vada a perdersi in rivoli. Raccoglilo, voglio
    che sia tutto per te, per te che mi piaci, per te che adoro, per te che sei
    bella, sensuale, per te che sei donna, la donna mia, per te donna di
    antiche fattezze, per te che sei gioia, che sei dolce, che sai amare, che
    sai piangere e ridere, che sai guardarmi con degli occhioni fulminanti,
    che quando mi sussurri sai essere tenera e languida, per te che vuoi
    vivere il nostro amore come una cosa bella, la cosa più bella e non
    t’importa l’ansia, la paura... se tutto questo è condizione per amare.
    Cosa saremmo senza l’amore? Io nulla senza di te, amore, Amore,
    AMORE!
    Tuo  (come ti amo!).


    Buongiorno, amore. Hai dormito bene stanotte? Oh, come vorrei
    trovarti accanto al mio risveglio. E dirtelo. E toccarti. Amore, ieri notte
    mi son trovato a passare sotto casa tua, è stato per caso. Guardavo di
    qua e di là ma era un supplizio. All’improvviso però ho abbassato la
    testa, mi si è stretto il cuore... a quell’ora forse, nel talamo... due corpi
    avvinghiati: che voglia di piangere! Non è facile, amore, non è facile. Il
    sogno, il pensiero di sfondare una porta e gridare: Rosa è mia, è mia, è
    mia!
    Ecco, torno ad essere avaro. Sì, amore, vorrei fossi tutta per me... ma
    ora devo smettere di scrivere, non vedo ciò che scrivo, mi piove
    davanti agli occhi... tutto intorno è sfocato.
    E’ stata come una folata di vento. D’improvviso sei apparsa lasciandoti
    una scia di capelli scompigliati, la tua camicetta bianca dava risalto
    alla tua pelle rosata: eri tu amore, eri tu mia acqua fresca in cima alla
    salita che, a compassione di me, malato d’amore, mi portavi un breve
    ma appassionato ristoro. Ma tu, amore, sei una fonte inesauribile:
    potrò attingere sempre alla tua acqua? Se è così io ti farò trovare sui
    bordi del tuo pozzo tanti zaffiri quanti saranno i tuoi sorsi (o meglio), i
    tuoi baci. Li voglio a milioni, sono più buoni di qualsiasi  nettare.
    Quando mi baci, amore, io vado al settimo cielo, tocco il paradiso qui in
    terra. Ovvero, il paradiso è sceso sulla terra apposta per noi due.
    Pensa quale privilegio! Gli altri devono morire per questo . Noi siamo
    fortunati: ci amiamo di un amore così grande che il paradiso si è
    dovuto allargare, quindi scendere un po’ di quota. C’è una condizione
    per far scendere il paradiso (o meglio) un trucco. Lo conosciamo solo
    noi due, ma non diciamolo a nessuno. Ebbene, per avere il paradiso in
    terra bisogna essere pazzi, ma pazzi d’amore.
    Amore, mi hai dissetato. E la fame? come la mettiamo con la fame? Ho
    fame, ho fame di te, voglio mangiarti tutta, tutta, tutta tutta tutta
    tutta... TUTTA!
    Mi capita spesso, amore, di chiamarti. Lo faccio a casa, lo faccio in
    macchina, sul lavoro. E’ come dare alla parola una funzione magica,
    come se pronunciando il tuo nome (lo grido talvolta) il suono avesse il
    potere di farti comparire. Ah, se tu avessi il dono della bilocazione! Ma
    poi questo evocarti una qualche suggestione ce l’ha: io mi commuovo e
    così ti sento più vicina, mi riesce perfino di toccare la tua faccia
    sorridente, riesco perfino ad ascoltare i tuoi “ti amo”. Sto provando
    pure a stringerti forte forte, ma sinceramente questo non mi viene
    molto bene... le braccia si chiudono e... niente. Ci proverò ancora, ci
    deve essere qualche trucco che ancora non conosco. Intanto, se anche
    tu mi ascolti, ti sussurro un “ti amo” con tale dolcezza che ti sento
    svenire. Ti prendo in braccio allora, ti adagio sul talamo. Ti risveglierò
    poi con il bacio più bacio che nessuno abbia mai dato sulla terra. Ma la
    vista dei tuoi occhioni belli aperti mi faranno svenire a mia volta. Tu
    non prendermi in braccio però, ti basta avvicinarti all’orecchio e
    cantilenarmi: Rooosa... Rooosa... Io dapprima prenderò a vedere tante
    Rose che mi girano intorno, ma poi il cerchio si stringe e mi apparirai


    tu sola. Ma adesso non sveniamo più, amore: facciamolo questo
    amore! Ciao immenso amore mio.
    Cara, ho deciso di partire. Partire con te s’intende. Diamoci
    appuntamento la prossima notte di festa e scappiamo per un giorno.
    Andremo per quei mari dove i pesci sono sensibili al richiamo
    dell’amore. Anche per noi un richiamo ci guiderà verso mete
    sconosciute dove tu, novella sirena, avvincerai l’oceano col tuo:
    TI AMOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOO!!!

    pianissimo   piano                 moderato              forte                 fortissimo
    Il silenzio qui è assordante, si sente troppo il silenzio. Ci fossi tu,
    amore, con l’irruenza che ti contraddistingue... ecco che gli oggetti,
    anche i più insignificanti si rianimerebbero. Tutto quello che qui mi
    circonda, in realtà non ha senso, non ha anima senza la tua... irruenza.
    Irrompi, amore, sfonda la porta, vieni e portami nel tuo mare di baci.
    Come sono saporiti i tuoi baci, come sono dolci, dolci più del miele. La
    prossima volta me li incarterò i tuoi baci, li nasconderò e, al momento
    giusto che sono solo, li scarterò e ne mangerò uno. Gli altri li chiuderò
    a chiave: sono avaro dei tuoi baci, amore! E un’altra cosa incarterò: i
    tuoi sospiri insieme con la tua faccia, i tuoi occhi semichiusi, la tua
    bocca  appena socchiusa... il desiderio mi incarterò... il desiderio!
    Il telefono guardo e tendo l’orecchio alla porta per piccoli tocchi, timidi
    tocchi di paura, paura dell’amore. Non aver paura, amore, tra le mie
    braccia godrai dell’abbandono più felice. Vieni, amore, bussa alla
    porta, bussa! bussa! I tuoi passi li sento da lontano, i passi del mio
    amore, del mio amore, della cosa più bella e fantastica che ho al
    mondo.
    Amore!!!
    Ho sentito il rombo della tua auto, mi sono precipitato alla porta, ho
    aperto: non eri tu. Sei a quattro passi, amore, ma non ti vedo, non ti
    sento. Ma do per certo che, dovunque tu sia, mi stai accarezzando non
    appena “la mia mano sfiora il mio viso dichiarandomi tutto il tua
    amore”. A quest’ora starai pranzando, amore.  Amore fai piano quando
    mangi, tra un boccone e l’altro riserbami un pensiero dolce, sia pure
    un buffetto sulla guancia. E se bevi un po’ di vino, lasciamene un po’
    nel fondo del bicchiere, perché di nascosto possa brindare con te e
    assaporare tutti i profumi che la tua bella e sensuale bocca vi ha
    profuso. Fai pure una carezza per me ai tuoi cari pulcini: loro non
    sanno ma tu sì.
    T’ho trovata, amore: non ti lascerò. Stupido che ero: avevo accanto un
    amore e per tanto e tanto tempo non me ne sono mai accorto. Stupido!
    stupido che ero! Ciao, amore mio.
    Sono trascorsi tre giorni dall’ultimo bacio, dall’ultima tua voce sentita.
    Mi sembra un secolo. Ecco, trilla il telefono, il cuore mi batte, mi arriva
    in gola, alzo la cornetta... non sei tu, amore. Sarà che tutto il mondo è


    in festa ed io son qui da solo e ti aspetto per un tempo che non passa
    mai. Quando penso alla festa, alla gioia, è a te che penso, amore,
    Com’è possibile, mi chiedo, amore, che io mi sia innamorato così tanto
    di te? Ho tante ragioni, ma in fondo c’è sempre un mistero. Tu mi
    attrai, amore, mi attrai fatalmente, sei la luce dei miei occhi, sei il
    mondo che riesco ad abbracciare, sei l’anima gemella che ho sempre
    cercato, sei il giardino dei miei desideri, sei il mare dove sprofondo nei
    più remoti e magici anfratti, sei la terra che calpesto ogni giorno, sei la
    gattina che accarezzo quando scendo le scale, sei la pianta di rughetta,
    che innaffio ogni sera al calar del sole, sei il miraggio che mi appare
    ogni volta in fondo al viale d’inutili querce, sei la stella che s’annuncia
    splendente sul lontano infuocato tramonto, sei ogni stella cadente che
    scivola innamorata in queste notti di caldo agosto, sei l’estate che mi
    acceca di luce quando lascio il lavoro, sei il venticello fresco che
    d’improvviso s’affaccia al calar della sera, sei il sorriso radiante che
    scopro sul volto di un bambino felice, sei la musica... la canzone... sei,
    sei sei... sono innamorato di te!
    Ha squillato, amore, eri tu, lo sentivo. Che gioia mi hai dato! La tua
    voce sommessa, furtiva, nascosta, flebile, quasi tu fossi una ladra. Sì,
    sei una ladra d’amore. In amore si ruba. L’amore è la più fantastica
    refurtiva che abbia mai visto... l’amore supera ogni barriera, l’amore ti
    fa forte, l’amore ti fa scalare montagne impossibili, l’amore sono due
    ali che ti librano sul cielo, l’amore sono due occhioni belli come i tuoi,
    fari nella notte... l’amore è il desiderio di averti adesso, proprio adesso
    sulle mie ginocchia... e cullarti e parlarti, baciarti, sussurrarti, odorarti,
    stringerti, soffiarti, cantarti, girarti, trasalirti, commuoverti, farti
    ridere, farti piangere, darti tutto il paradiso che vuoi e che meriti.
    Amore, a quando? Tuo tuo tuo.
    Caro amore mio, oggi tutto lascia presagire che ti sentirò, meglio, ti
    vedrò: chissà. Stamane mi sono profumato per te, perché attendo un
    qualche tuo bacio. Sono stato via, amore, lontano. Tu eri ancora più
    lantana. Così la sera guardavo la luna dall’aria innamorata, e alla luna
    dichiaravo i miei desideri, i miei sogni, alla luna ho svelato che sì, io ti
    amo. La luna è l’unica a saperlo, amore, non preoccuparti, non mi
    allargherò oltre. Posso dirlo anche al sole? e ai pianeti? e ai miliardi di
    stelle? Bene, passerò la vita a raccontare a ciascuna stella tutto il mio
    amore per te. E non mi stancherò mai, mai, amore mio. Ti adoro.
    Bussa alla porta, amore, bussa! Voglio vederti, toccarti, verificare che
    non si tratta solo di un sogno. Dov’è quel tuo corpo che stringevo,
    stringevo e mi pareva di contenere il mondo intero? Dov’è quel tuo
    viso che specchiandosi sul mio mi rivelava le strade più segrete di una
    donna? Dov’è la luce dei tuoi occhioni belli che mi paralizzava lo
    sguardo e mi riduceva alla pura contemplazione? Posso dire di aver
    conosciuto l’estasi, l’adorazione, l’annullarmi in te, il fondermi in te,
    l’entrarti dentro nell’anima e nel corpo fino a diventare un essere solo.
    Che nessuno mi stacchi più da te, che nessuno mi vieti di porre il capo


    sulle tue ginocchia e sentire l’onda d’amore che s’avvicina sempre più
    fino a travolgermi, a travolgerci. Dammi la mano, amore, ripetiamo il
    miracolo del sogno, avviciniamo le sponde dei due letti separati,
    prendimi, prendiamoci, riversami addosso tutto il tuo calore, la tua
    sete d’amore, il fondo dei tuoi desideri. Saremo nudi sotto le lenzuola,
    stretti stretti, avvinghiati, senza respiro. Ci guarderemo a lungo in una
    danza di baci e di carezze, di parole mai dette. Ti servirò spumante
    ghiacciato. Amore! Tuo.
    A quest’ora forse sei nella toilette a lavarti il viso, a passarti il
    rossetto, l’ombretto intorno agli occhi... sei sola, ma avverti come una
    presenza, ti senti spiata... succede che ti guardi allo specchio con i
    miei di occhi: e ti piaci, e t’innamori di te, e ti desideri, e vorresti
    baciarti, sfiorarti almeno il viso un po’ assonnato... ma lo specchio è
    implacabile, la tua immagine è solo un sogno! Ma poi uno spruzzo di
    profumo ed ecco che anche l’immagine nello specchio si rianima,
    profuma anch’essa: avvolge il profumo, penetra il tuo riflesso, lo
    specchio, specchio delle brame, dei desideri...
    Ti ruberò così, un giorno non visto, i miei occhi davanti al tuo specchio.
    Conosco un profumo, un unguento, lo passerò sul viso riflesso del tuo
    specchio e si compirà il miracolo dell’amore.
    Qui, amore, qui sono triste e solo, ti penso, ti penso sempre... e
    vagheggio, e sogno... Presto, amore, presto! Ti amo.
    Ieri pomeriggio, amore (non ce la facevo proprio più), sono passato
    davanti casa tua. Sebbene tutto immobile in quella casa (finestre
    chiuse, non una voce dal giardino) ho pur tuttavia respirato un po’
    della tua aria... qualcosa dovevo pur fare per “quietarmi”! Ho avuto la
    tentazione di ripassare ma... sono stato indotto a più ragionevoli
    consigli.
    Ieri al telefono com’era bello sentire la tua voce tradita dall’emozione.
    Oh, come avrei voluto gridarti che ti amo, che ti voglio, che ti desidero,
    che ti bramo, ti bramo!
    Non ti vedo da dieci e più giorni. Eppure sei vicina in linea d’aria, potrei
    addirittura venire in questa tua casa misteriosa e bussare:
    - Sono io: sono venuto a prenderti e portarti via.
    - Finalmente! Ti aspettavo da sempre.
    - Amore, fai presto, ci aspetta un paese ignoto, lontano. Stasera si
    cena alla corte, si festeggiano i 18 anni della principessa.
    - Come si chiama?
    - Rosa, amore, Rosa.
    - Davvero un bel nome. E a chi è stata destinata in sposa?
    - A un cavaliere solitario che gira su un cavallo bianco. Non scende mai
    da cavallo, ci dorme perfino. Ha detto che scenderà soltanto per
    prendere la principessa in braccio e portarsela via a cavallo per il
    paese ignoto. Dice che lì vuol fondare un altro regno. Dice che lì gli
    amanti non si dovranno più nascondere e saranno felici di baciarsi
    davanti a tutti.
    - Ma come si chiama questo cavaliere?


    - Mario, amore, Mario.
    - Ma allora?
    - Andiamo, amore, andiamo: il cavallo bianco ci aspetta.
    E il cavaliere prese Rosa in braccio nella casa. Qui ci fu dapprima
    silenzio, ma poi un uomo:
    - Vai, vai pure. E’ ora che la tua fortuna si compi: io ne ho avuta fin
    troppo da te.
    Sopraggiunsero gli aquilotti:
    - Vedrai, mamma, ce la sapremo cavare. Vai pure, è l’ultima occasione
    che hai. Noi siamo già grandi, baderemo a noi stessi. Non ti
    dimenticheremo.
    Ma il cavaliere:
    - Amore, ho un cavallo di riserva per i tuoi aquilotti.
    E Rosa volò con Mario sul cavallo bianco tra monti e dirupi, valli e
    praterie, boschi e foreste fino al castello del paese ignoto. Quando, una
    volta sopraggiunti, con grande sorpresa si accorsero di essere stati
    preceduti dagli aquilotti:
    - Avevamo le ali - si giustificarono. Il cavallo di riserva lo abbiamo
    lasciato a casa.
    E tutti si rifocillarono e fecero festa e iniziò l’era del regno degli amanti
    visibili.
    Ma, una settimana più tardi, ecco in lontananza apparire un uomo a
    cavallo dall’andatura lenta e stanca. Perdinci, era lo stesso cavallo di
    riserva lasciato a casa dagli aquilotti!
    Appena giunto, l’uomo, stanco e provato, scese da cavallo e parlò:
    - Non potevate lasciarmi solo laggiù così all’improvviso!
    - Bene, fatti pure avanti. In questo paese degli amanti visibili ci sono
    amanti per tutti, anche per te. E aquilotti finché vuoi -  fece il
    cavaliere.
    E tutti vissero felici e contenti.
    Mancano pochi giorni, amore. Saranno i più lunghi della mia vita. Una
    porta s’aprirà d’incanto e ti vedrò apparire in carne ed ossa, più bella
    che mai, più luminosa che mai, quella stessa che al mattino mi portava
    la gioia, oh! ancora la stessa gioia, più gioia. I miei occhi brilleranno
    come folgorati da quale visione chissà, e sulla mia testa mi danzeranno
    folletti, putti, voleranno frecce; mi suoneranno musiche mai ascoltate;
    e bagliori e fuochi e una ninfa lancerà rose profumate... Il menu
    comprende: sorrisi al tritolo, occhioni chiari di fanciulla, baci
    appassionati alla Romeo, carezze languide alla Tosca, bocche di
    ostriche color rosso acceso, pelle aurora rosata, capelli dapprima
    sciolti, poi raccolti in libera nuca, mani in continuo fremito, braccia per
    stringere alla Sansone, seni turgidi apri e chiudi, pube scioccante al
    profumo di rosa, lobi morbidi per labbra carnose, orecchie glassate per
    cori angelici.
    Il menu finale: dolce di Rosa, Rosa dolce, Rosa la dolce, Rosa sul dolce,
    Rosa dolcissima, Rosa la più dolce dei dolci, ROSA! FINALMENTE! Tuo.
    Ecco, mancano pochi minuti, il cuore mi batte forte, il respiro è


    affannoso. Quanto è bella questa attesa, questa scrittura incerta. E sì,
    perché mi trema anche la mano. Tra poco calerai come dal cielo, è un
    sogno, non ci credo ancora. Vorrei prepararti un tappeto di rose, ai lati
    schiere di putti in festa ognuno col suo arco d’amore. In disparte un
    angelo suona un adagio al violoncello, le note sono dettate dai nostri
    impulsi, dai nostri sospiri, dai nostri gemiti. Durante il nostro primo
    bacio l’angelo osserverà una pausa, la musica sarà il turbinio dei nostri
    sentimenti, dei nostri voli, dei nostri sussurri, delle nostre dolcissime
    parole.
    Amore, amore... quanto ti amo! Ti amo troppo, amore, mi perdo
    nell’immensità del nostro amore: sto volando alto, alto, alto... ti
    abbraccio in quest’infinito, in questo cielo maestoso della nostra isola.
    Il sole si è levato per noi stamane, ci scalderà insieme: i suoi raggi,
    almeno per oggi, saranno tutti d’amore.
    La mia gioia sei tu. Tu sei la gioia! Amore, come ti amo! Non credevo
    fino a tanto. E’ troppo, amore, non respiro più.
    A ROSA CARUCCI 5 mesi dopo

    Non c’è che dire: soffro di solitudine e sento freddo. Il tuo viso
    basterebbe a riscaldarmi. E i baci? Domani parto, come al solito mi
    sfumerai un po’. Chissà, forse passeggiando su per i boschi della
    montagna, ti vedrò apparire dietro un alberello di ginepro, o dal manto
    di neve che copre un tappeto di foglie secche che l’autunno ha
    radunato sotto i rami di castagni ormai spogli. Il tuo sorriso mi
    riscalderà allora e potrò correre come un folletto per viottoli angusti,
    seminando suoni e parole che nessuno può sentire all’infuori di te e di
    un piccolo scoiattolo birbone che l’andrebbe a spifferare all’infìda
    istrice notturna.
    Ti vedrò brillare nella nebbia dei lampioni, tra le gocce gelate che si
    fanno sui rami madreperla, sulla cima innevata che svetta superba
    contro un cielo lunare, tra acque fresche di un torrente che corre
    chiaro verso il mare, sul volto di una donna bella che m’incrocia e si
    volta sorpresa a mirarmi: come se m’avesse già visto, gia amato, sui
    tratti di una fanciulla tenera e dolce, come solo tu sai essere quando ti
    perdi e viaggi per i miei occhi lontani.
    Aspettami.





























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    Rubrica "Risponde Umberto Galimberti" D di Repubblica. 16 nov. 2013 p. 218.
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  10. Mio padre Giovanni Romano 

    Lo chiamavano Giovannino. Capijancu (Capobianco) era il soprannome per via che a quelli della sua stirpe s’imbiancavano precocemente i capelli. Di storie da raccontare mio padre ne aveva sempre a iosa: sfido io con nove anni di guerra! Partì militare per Genova, era il 1935, e da qui fu imbarcato per l'Africa: 15 giorni di traversata, tre anni di guerra in Libia, Eritrea ed Etiopia per difendere le conquiste coloniali. Raccontava sempre di aver partecipato a una marcia di 600 Km detta dello Scirè. Tornato a Collemeto nel 1939 sposò Giuseppina Costantini, figlia del massaro Paolo della masseria di San Giovanni. I Costantini provenivano da Zollino, paese della zona grika del Salento. Un anno dopo il matrimonio Giuseppina morì di tifo, una morte usuale in quegli anni a causa delle condizioni igienico sanitarie molto precarie in cui si viveva allora. Anche la mortalità infantile era molto alta. Basti dire che in mancanza di un acquedotto si era costretti a bere l'acqua piovana convogliata in grandi cisterne sotterranee.
    Nel 1940 si risposò con mia madre Lucia Giustizieri nativa di Neviano, ma fu richiamato per la seconda guerra e, per i meriti della guerra d’Africa, gli fu concesso di raffermarsi come guardia confinaria sui monti di Ventimiglia. Qualche anno dopo lo raggiunse mia madre e misero su casa lassù in Alta Italia
    Fu in seguito a un bombardamento degli alleati che mamma dovette sfollare verso Alessandria in casa di parenti di un commilitone di mio padre. Alla fine della guerra entrambi impiegarono un mese, stipati in un treno merci, per tornare a Collemeto. Per due anni a causa dell'Italia spezzata in due non avevano dato notizie di sé, sicché al paese ormai venivano dati per dispersi.
    Per i primi nove anni di matrimonio non ebbero figli: il primo a nascere fu il sottoscritto nel 1949, poi in sequenza altri tre figli maschi: Aldo, Angelo ed Eugenio.
    Di storie di guerra ne raccontava tante papà, spesso su insistenza di noi ragazzi. Erano storie di coraggio e di avventura, anche raccapriccianti, tante volte con la morte scampata per un soffio. D'estate, nei raduni serali della gente, diventava un affabulatore e le sue storie erano molto richieste. Ma per quanto queste fossero tragiche non tralasciava mai di condirle con l'ironia e lo scherzo. Aveva un bagaglio comico non indifferente e si abbandonava volentieri all'esagerazione e ai gesti più smodati pur di far ridere. Gli piaceva anche cantare, aveva una voce bassa e possente e duettava spesso con suo zio Pasqualino Romano che abitava dirimpetto.
    Negli anni Cinquanta mio padre con suo fratello Vito misero su una piccola società di autotrasporti che commerciava in blocchi di tufo da costruzioni pesanti e faticosi da maneggiare, visto che non esistevano né gru, né muletti. Lavoro duro, levatacce mattutine per caricare e scaricare un autocarro con rimorchio facendo leva sulla sola forza delle braccia.
    Una Fiat Seicento fu il suo veicolo quotidiano per girare da un cantiere all'altro e piazzare i tufi. Meta quotidiana era Lecce soprattutto, che negli anni Cinquanta pullulava di cantieri: vedi la costruenda allora piazza Trecentomila e il quartiere Santa Rosa.
    Furono anni in cui il pane e il lavoro non mancò: più fortunati di tante famiglie che avevano problemi di sopravvivenza e i cui figli e mariti espatriavano in Francia, in Svizzera, in Germania o nel Nord Italia. Poi nel 1965 il tracollo, la società si sciolse, restammo sul lastrico. Fu in questa circostanza che mia madre maturò l'idea di emigrare a Civita Castellana nel viterbese. Qui raggiungemmo altre famiglie di Collemeto e dell'intero Salento dedite alla coltivazione del tabacco. Dieci anni duri, anni di isolamento nella campagna, levatacce mattutine, ore e ore passate a raccogliere e a infilzare tabacco, ore dove soltanto le parole e le canzoni potevano alleviare il tedio e la fatica di ogni giorno specie durante i mesi estivi.
    Era un uomo forte mio padre e ci dava sempre l'impressione che non si stancasse mai. Nel lavoro badava molto alla forma (che non era essenziale ai fini del profitto), ma ci teneva a che le corde del tabacco e i telaietti esposti al sole stessero nell'ordine dovuto. Nel 1975, i figli ormai sistemati, il ritorno a Collemeto. L'orto e gli ulivi, nel suo appezzamento di terra nel fondo San Giovanni divennero la sua occupazione quotidiana. Fumava molto, fino a distruggersi i polmoni. Se ne andò la notte del 2 febbraio del 1986 all’età di 71 anni. Era di sera, una telefonata: papà grave. Da Civita Castellana una corsa notturna di 700 km con Mina e i miei fratelli nella speranza di poterlo salutare per l'ultima volta. Ma non facemmo in tempo.
    Di lui ricordo i baci sulla bocca quando tornavo a Collemeto, spesso con sorpresa una o due volte l'anno. Erano gli stessi che ci elargiva da bambini: per lui era come se non fossimo mai cresciuti. Negli abbracci, poi, mi fissava sempre negli occhi e spesso osava chiedermi: "Quanto bene mi vuoi, figlio mio?"
    Ho un dolce ricordo di quand'ero seminarista a Nardò. Partiva di proposito da Collemeto per appostarsi all'angolo di una strada al sol fine di vedermi passare con gli altri seminaristi, in fila e in silenzio, nella consueta passeggiata del primo pomeriggio. Seminascosto, mi lanciava strani segni, uno di questi era mettersi il taglio della mano in bocca e stringerla in una voglia di urla e imprecazioni, quasi volesse dirmi: ma chi te l’ha fatto fare figlio mio! Non gli era concesso avvicinami, era proibito dalla regola. Ma quegli occhi di malinconia a scrutarmi di nascosto con tanta voglia di un abbraccio almeno, me li sento ancora addosso quando il suo ricordo di struggente tenerezza mi fa ancora capolino come allora e più di allora
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    COMMENTI DEI LETTORI:


    Lupo Fiore bell'uomo . bella foto - questo , invece mio padre , il comandante Franz ,che , scampato a Cefalonia , si e' fatto anche Auschwitz - Birkenau - da internato- Esattamente un mese fa avrebbe compiuto 98 anni- classe 1917- mi manca il mio bambino  perdonami Alfredo se ho utilizzato il tuo spazio..mi hai dato l'abbrivio..



    Lupo Fiore infamie della guerra ..
    20 giugno alle ore 7.16 · Non mi piace più · 2

    Lupo Fiore ben fortunato alessandro.. tieniteli cari cari... ..dopo sara'..disperante

    Alessandro Soli Una rassomiglianza impressionante, le poche righe che hai scritto caro Alfredo avvalorano i sentimenti che noi coetanei abbiamo per i nostri genitori. Papà di anni ne ha 91, mamma 89, storie diverse, realtà diverse, ma accomunate dalla voglia di fare tipica degli italiani VERI ! Vale Alfredo, vale...

    Carmen Diletta Ho letto con molto piacere questo tuo chiaroscuro di vita che tocca il cuore molto da vicino evocando la figura dei "nostri" padri ( somiglianti,stranamente ,anche fisicamente! ) e invita a riflettere modulando i ricordi. Buona giornata a tutti! 

    Mimmo Dominicis Io l'ho conosciuto...Bellissima foto...E debbo dire anche bellissima persona come uomo...

    Sara Cherubini Che bello questo racconto e che belle le tue parole nel raccontarlo. A me le storie delle generazioni a cavallo tra le due guerre hanno sempre affascinato particolarmente e starei ore ininterrotte ad ascoltare e a fare domande e allora grazie Alfredo!

    Luca Romano Grande Nonno!!! Sempre nei miei pensieri

    Piera Monti C'era una volta...Affascinante il tuo racconto, tuo padre una bellissima persona, ciao Alfredo

    Anna Piccinno Dopo aver letto quello che hai scritto su tuo papà, Fiorentino ha continuato a raccontarmi, ricordando le visite dei genitori al Seminario ........" dovevi vederlo, Anna, il padre di Alfredo quando veniva a trovarlo. Il momento del distacco era particolare: Alfredo all'interno del portone e suo padre all'esterno, nella piazzetta......un saluto con la mano e via, tre -quattro passi e poi si voltava nuovamente per salutarlo e continuava così fin quando non scompariva.....".Caro Alfredo, oggi facciamo a te che assomigli tanto al tuo papà, gli auguri sperando che il traguardo dei cento anni possa raggiungerli almeno tu . Anna e Fiorentino

    Raffaele Donno Complimenti Alfredo per la bella e unica storia... unica come sono le persone... uniche e irripetibili!

    Alfredo Romano Arrivare a cent'anni? Ciao Fiorentino, non immaginavo che le scene di mio padre in seminario nell'atto del saluto si fossero stampate nella tua memoria. Un grazie di cuore a te e alla tua Anna.

    Alfredo Romano Ringrazio di cuore tutti gli amici che hanno apprezzato il ricordo di mio padre. Non mi aspettavo tanto interesse. Sono commosso.

    Rosa Adele Nunzio bel ricordo che emoziona!

    Lustefanu Lutranviere Uomini di altri tempi, che si ricordano con quel farfallio allo stomaco, anche chi non ha avuto persone come tuo padre affianco, vive a ritroso momenti di infanzia (come nel mio caso) che fanno luccicare gli occhi e strozzarti la gola con quel nodo che tanto ci piace ricordando quei momenti, grazie per aver condiviso questa emozione

    Rosa Adele Nunzio mi piace il commento precedente perché è ciò che penso, preciso, preciso... grazie anche a lustefanu lutranviere

    Anna Leo Alfredo. .bellissimo racconto...mi hai trasmesso un emozione infinita, indice di profondo affetto.

    Vanessa Losurdo Buona ricorrenza Alfredo! 

    Mina Spedicati gli somigli tanto.

    Franco Carri Caro Alfredo, bel racconto, bel papà cui assomigli tanto!

    Maria Pia Bel ritratto Ha occhi irrequieti e luminosi come l avevamo certi uomini combattivi del sud. Anche mio nonno ha fatto la guerra in Etiopia ed era rimasto vedovo durante la guerra. Dell'Africa raccontava le cose tragiche e bizzarre che aveva visto. Invece mi è piaciuto tanto il racconto in cui narrava di come suo padre la svegliava al mattino quando bisognava raccogliere il tabacco. Può ripubblicarlo? È quello in dialetto salentino, con le imprecazioni, troppo spassoso!

    Paola Rossi che uomini...

    Tiziana Montinari Hai fatto un bel ritratto.....gli somigli comunque 

    Caputo Luigi Giorgio I sogni dei nostri padri vivono in noi!

    Aldo Romano Grazie Alfredo per avermi ricordato i cent'anni di papà, Un grande papà e...non dico altro

    Alfredo Romano Caro mio fratello Aldo, ti aspettavo. Un abbraccio.

    Paola Romano Io non posso dire niente.. Mi viene solo da piangere ogni volta che penso che non c'è più.. Io ero la sua reginetta, come diceva lui, e per me lui era il più grande... Mi manca tantissimo, mi ha insegnato tante cose, peccato che Giorgia non lo abbia conosciuto, si sarebbero piaciuti... Ciao nonno, sei sempre nel mio cuore e nei miei pensieri 

    Pina Costantini Che caro, lu zi Giovanninu!

    Giovanni Romano (figlio di Angelo) nonno ti penso sempre e mi manchi tanto,se potessi vedere tutti i tuoi nipoti adesso!!!!!!!!!!

    Alfredo Romano Ciao mio nipote Gianni che porti il nome del nonno. Tu lo hai conosciuto da piccolo e te lo abbiamo sempre raccontato.

    Giovanni Romano (figlio di Aldo) Sarebbe stato bello conoscerlo. ..

    Rita Mastria dove sono i padri di un tempo? Quelli che sapevano unire la forza e la dolcezza insieme e le sapevano trasmettere ai figli insieme a tanto altro: i sacrifici e le privazioni ne avevano forgiato il carattere insieme alle tenaci radici contadine. Oggi la paternità è tutta da riscoprire

    Sandro Filoni Grazie Alfredo mi hai fatto ricordare i bei tempi passati ad ascoltare i racconti dei miei (nonni, Vito Filoni e Giuseppe Petrelli) coetani di tuo padre. Leggendo il tuo racconto mi e sembrato di sentirli ancora.
    Grazie di cuore.

    Alfredo Romano Non immaginavo, caro Sandro, parlando di mio padre, di poter restituire un po' la storia e il modo d'essere della vita di un tempo. Grazie a tutti quelli che hanno commentato così numerosi questo post.

    Pina Muscogiuri grazie alfredo,con questi bei racconti, tu scaldi i cuori 

    Raffaella Verdesca Tuo padre l'ho conosciuto e amato da quando è nato fino ad oggi, 21 giugno 2014. Domani aggiungerò un giorno in più. Tutto questo mi è stato concesso attraverso le infinite strade fiorite del tuo andare incontro ai ricordi e agli affetti. Le parole che sai scrivere e pronunciare sono protesi dei tuoi ventricoli, vi scorrono tumultuose emozioni che hai reso immortali anche per noi. Come tuo padre Giovannino. Anche noi, come lui, ci sentiamo premurosi cari seminascosti negli angoli delle vie che percorri, Alfredo Romano, aspettando che tu passi in compagnia dei tuoi fantastici sentimenti. Ti stringeremo appena possibile.

    Alfredo Romano Beh, Raffaella Verdesca, per tutte le storie che negli anni scorsi ho raccontato (l'ho impersonato anche a teatro mio padre) s'è fatta una cultura della mia famiglia.

    Egidio Antonazzo ...vite diverse ma storie comuni: mio padre , 24 maggio1912 - 14 settembre1991! Sei anni di guerra e poi ripartire per una nuova stagione da Uomini Veri!














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  12. “Figlio mio, è da anni che non vedo una delle mie sorelle suore, la Sina, che sta confinata a Sorrento. L’altra, la Cosimina, è più fortunata: si trova nel convento di Maglie a 35 km da Collemeto e almeno lì la vanno a trovare. Ma la Sina mia, poveretta, così lontana, ma chi ci va? Alfredo, figlio mio, devi recarti a Sorrento e portarmi sue notizie.” Se n’era uscita così mamma Lucia mentre alle quattro del mattino eravamo intenti alla raccolta del tabacco nella sconsolata landa di Terrano, a Civita Castellana, dove non cantava mai gallo e non luceva luna: un castigo di Dio per scontare quali colpe chissà. Morti di sonno e faccia a terra, udivamo solo il ticchettio delle foglie spezzate quale colonna sonora alla nostra fatica, la schiena curva per ore ed ore e ogni tanto tirarsi su per placare il sangue che fluiva al cervello.

    1955. Mia zia Rosina Giustizieri, detta Sina, prima di farsi suora.

    Quando zia Rosina, detta Sina, e zia Cosimina, ultime di sette fratelli, abbandonarono Collemeto alla volta di Roma per consacrarsi suore dell’Ordine Francescane Alcantarine, io avevo appena cinque anni. Non ho netta memoria di quando le zie vestivano come le altre ragazze prossime all’età da marito, ma un ricordo curioso lo rammento.
    Abitavamo sulla stessa via Padova a un centinaio di metri dai nonni materni e spesso mi recavo da loro dove trovavo anche la zi’ Sina e la zi’ Cosimina. Accadde alla zi’ Sina di prendersi una di quelle malattie infettive che a quei tempi erano usuali e che portavano non di rado alla morte. Così andavo a trovare spesso la zi’ Sina e bastava la mia presenza per distrarla un po’ dalla febbre alta. Si lamentava ogni tanto la zia e così mi saltò in mente un rimedio che le manifestai con tale entusiasmo che non poté rifiutare:
    “Zi’ Sina, vuoi che ti suono la fisarmonica ché così ti passano i dolori di capo?”
    “Sì sì!” assentì la zia con voce flebile.”
    Così mi procurai un foglio di carta di giornale e, dopo averlo pieghettato, aprendo e richiudendo il pieghevole a mo’ di fisarmonica, misi in moto un concertino vocale sul motivo della raspa col solo lalà lalà lalà! / lalàla làlla là! E alla zi’ Sina ci scappava da ridere, per farmi contento magari. E ogni giorno alla zia suonavo la “fisarmonica” fino a quando fortunatamente guarì del tutto.

    1955. Mia zia Cosimina Giustizieri, prima di farsi suora all'età di 18 anni.

    Le zie suore nel corso del rito della vestizione dovettero cambiare, a norma di regolamento, il nome di battesimo: la zi’ Rosina divenne zia suor Luigina e la zi’ Cosimina zia suor Teresina. Tornavano a Collemeto ogni anno d’estate nel mese d’agosto per una vacanza di 15 giorni. Noi nipotini le aspettavamo sempre per via dei regalini: caramelle, confetti, cannellini, ma anche rosari, libretti devozionali, immaginette di santi e madonne. Malgrado il caldo afoso, per regola erano costrette a coprirsi il capo lasciando scoperti solo gli occhi, il naso e la bocca; la fronte, le gote e il mento nascosti. Con gli anni avrebbero ottenuto di scoprirsi il volto lasciandosi solo un velo come copricapo.
    Accadeva ogni anno, grazie al solito diavolo tentatore, che mio padre Giovanni proponesse di recarci tutti al mare per una scorpacciata di cozze di cui tutti noi, le zie suore in specie, eravamo ghiotti. Stipati in otto nella Seicento Fiat verde pisello (papà, mamma, io, i miei tre fratelli e le zie suore) partivamo alla volta di Gallipoli dove ci procuravamo da un salumiere il pane rigorosamente bianco, considerato un lusso allora rispetto al pane di grano duro, quindi un kg di provola piccante, due bottiglie di rosato salentino, dei limoni e poi la corsa al mercato del pesce per l’acquisto di 3-4 kg di cozze nere, di poi alla volta degli scogli dove iniziava il rito dell’apertura delle cozze, mestiere consumato per mamma e papà. Per noi bambini non c’erano divieti di sorta e con quel profumo di mare e la schiuma che lambiva gli scogli, ci abbandonavamo a un rito di antica usanza: dapprima con l’aiuto di un coltellino staccare le valve, raschiare la valva rimasta liberando il mollusco dalla corda (zoca), spremere sopra delle gocce di limone, portare in bocca la valva col mollusco risucchiandolo col labbro superiore, mordicchiare un pezzo di pane e di provola e, infine, tra un boccone e l’altro, tracannare l’atteso rosato. L’allegria era generale e le zie suore si beavano di quella giocondità gradita non solo al corpo ma anche all’anima. E, nel divorare quel bendidio, si suffraggiavano anche i morti, come era sempre d’uso sulle tavole salentine. Le risate si perdevano nel fragore dei flutti e della schiuma fino all’ora del tramonto, quando il sole, allungando sul mare i suoi dardi fiammeggianti, pareva dovesse ingaggiare una lotta contro il maligno. E, come per ringraziare la buona sorte, giungeva anche l’ora di sgranare il rosario, il sole ormai dietro i flutti. E, come reduci da un pasto da re si tornava a casa con un po’ di mestizia. E le zie suore, ormai ottuagenarie, ancora oggi rimembrano come un sogno il paradiso perduto degli scogli.

    In tanti anni di servitù ecclesiastica, le zie hanno conosciuto tali e tante sedi conventuali che è facile pensare che ci fosse una regola sottintesa per la quale le suore in generale non dovevano familiarizzare più di tanto tra loro. In alcuni periodi hanno convissuto in uno stesso istituto, ma il più delle volte sono state sempre separate. Non dimentico le tante destinazioni: Bari, Catanzaro, Maglie, Muro Leccese, Manziana, Scauri, Molfetta. Attualmente sono separate: la zi’ Cosimina dimora a Bari e la zi’ Sina a Canosa di Puglia. La loro aspirazione maggiore ormai è, quando sarà, quella di poter essere sepolte nel cimitero di Collemeto accanto alle sorelle e ai genitori ormai defunti da decine di anni.
    Ogni anno, alla fine del soggiorno estivo a Collemeto e in partenza per Civita Castellana, io e Mina non manchiamo di fare sosta prima a Bari e poi a Canosa per dare un saluto alle zie suore e portare in dono alcuni cibi della loro infanzia come le frise e le pucce di pane con le olive che poi dividono con le consorelle. Noi nipoti restiamo per loro l’ultimo contatto col mondo degli affetti familiari e ci aspettano sempre come “anime sante”, espressione salentina che dà il senso dell’attesa. In conversazione con le zie, dopo aver dato loro notizie del parentado, sapendo della mia passione per il folclore salentino, passiamo a raccontare fatti e misfatti della nostra e della loro infanzia che custodiscono come un prezioso lascito. Si parla in salentino ovviamente, un modo per farle scompisciare dalle risate. E grazie anche alle conversazioni con le zie suore alcuni racconti sono finiti nei miei libri di tradizioni popolari.
    Quando abbiamo sostato a Canosa alla fine dell’estate scorsa, ho trovato la zi’ Sina in condizioni precarie: la poveretta camminava aiutandosi con un girello. Ma, nella sorpresa di vedermi, ha ripreso il suo spirito di sempre con quel sorriso sempre stampato sulla sua faccia gioconda. In breve l’ho fatta accomodare:
    “Zi’ Sina, voi cu tte cuntu te La contramizione te papa Cajazzu?”
    Al solo dirlo è scoppiata a ridere e non la smetteva più. E già, perché la zi’ Sina, solo a nominarle il titolo di un racconto che già conosce se ne va in sollucchero.

    1956. Le mie zie: Suor Luigina (già Rosina) e zia suor Teresina (già Cosimina).

    “Alfredo, figlio mio, tieni ormai 18 anni, sei il più grande dei fratelli e, sebbene ragazzo, hai dimestichezza con i treni per i tanti viaggi Lecce-Roma e viceversa: perciò vai a trovare mia sorella Sina per rassicurarmi che si trovi in buona salute soprattutto.”
    Era estate, partii di sabato all’alba con la Ferrovia Roma Nord che dopo un’ora e mezza mi scaricò a Piazzale Flaminio. Salii sull’autobus che mi condusse a Roma Termini e qui, dopo l’attesa di un’ora circa per la coincidenza, presi posto sul treno che mi avrebbe portato a Napoli. Alla stazione di Napoli mi si affiancò un signore apparentemente gentile che a tutti i costi volle caricarsi della mia valigia di cartone col dire che avevo l’aria stanca per il viaggio. Vero che era mezzogiorno ed ero reduce da una levataccia, ad ogni modo lasciai che il signore mi aiutasse a reggermi la valigia. Usciti dalla stazione il signore me la restituì e io lo ringraziai per la gentilezza, quando, ad un tratto, stese la mano e sillabò:
    “Sono 200 lire, grazie!”
    Non mi rabbuiai per questo, rimasi stupito semmai. Anche se avevo in tasca i soldi contati, capii per la prima volta che c’erano al mondo altri modi per guadagnarsi il pane. Lo stesso signore mi indicò l’autobus che mi avrebbe portato a Sorrento. Quando l’autobus giunse sulla costiera amalfitana non potetti che restare incantato di fronte a tanta smisurata bellezza del mare e del paesaggio. Finalmente Sorrento, un paese così decantato nella letteratura musicale napoletana, come anche nel cinema. Estrassi dalla tasca l’indirizzo del convento e chiesi spiegazioni a un passante. Non era distante e di lì a poco mi trovai davanti a un vecchio e austero edificio del Seicento. Mi aprì un custode e gli deposi le mie generalità. Ero emozionato: di lì a poco avrei visto la zi’ Sina che non vedevo da anni e immaginavo la sorpresa.
    Il custode mi introdusse nel grande cortile dell’edificio circondato da un colonnato dove un centinaio di giovani fanciulle giocavano e vociavano a più non posso. Il custode mi chiese di attendere ché sarebbe salito al primo piano per far scendere mia zia. Intanto nell’attesa mi si avvicinarono alcune giovinette. Mi impressionarono a prima vista i loro abiti: consunti e non certo consoni alla loro età. Incuriosite dall’estraneo, si approssimarono per chiedermi chi ero, come mi chiamavo, perché mi trovavo lì. Intanto arrivavano altre ragazze e altre ancora. E accadde l’imprevedibile: sì, ero circondato da decine di giovinette che mi toccavano e mi si stringevano addosso sussurrandomi parole carine come quanto sei bello! che begli occhi che tieni! che bei capelli che hai!” Ero disorientato, mi schernivo, guardavo l’una e l’altra, le guardavo tutte, le voci, le mani, gli occhi delle ragazze, quando, ad un tratto, respirando a fatica, fiutai il pericolo e cercavo ormai una via di scampo. Fortunatamente venne a liberarmi la voce concitata del custode che mise fine all’assedio.

    Mia zia Cosimina con i ragazzi nell'Istituto di Bari.

    E dire che noi uomini abbiamo sempre vagheggiato quel sogno millenario di vivere in un harem! Sì, ma non così: senza uno sguardo dolce, senza specchiarsi negli occhi, sussurrarsi parole d’amore inusitate, carezze e strette da rimembrare per tutta la vita.
    Ma ecco la zi’ Sina che scendeva dalle scale di gran corsa non credendo ai suoi occhi di trovarmi lì. E ci siamo abbracciati con tanta tenerezza non capacitandomi io del suo destino di reclusa che anche a lei, come alle ragazze, la vita le aveva riservato. Una bella donna era la zi’ Sina: era stata fidanzata prima di farsi suora, ma scappò, scappò da un padre che non permetteva alle figlie neanche di sostare sull’uscio di casa, ma erano quasi tutti così allora i padri con le figlie. Recluse per recluse, la zi’ Sina e la zi’ Cosimina, riflettendo sul loro destino di future madri sottomesse all’uomo padrone, preferirono chiudersi in convento. E per tutta la vita hanno riversato il loro amore materno sui figli degli altri, dai più piccoli ai diciottenni, quelli che avevano avuto la sventura di avere madri o padri sciagurati.
    Ma era giunta l’ora di pranzo e la zi’ Sina mi fece sedere a tavola con le consorelle che vollero sapere tutto di me. Mia zia riassumeva loro la mia biografia non risparmiandosi di rivelare che fino a qualche anno prima ero stato in seminario cinque anni.
    “Oh, che peccato:” tutte in coro “saresti stato un bravo sacerdote!” nel mentre mi schernivo maldestramente con qualche rossore in viso.
    Ma la sorpresa avvenne la sera quando arrivò l’ora di andare a nanna. Mia zia mi delucidò:
    “Ascolta, Alfredo, non te ne curare: stanotte dormirai in una camera che sta in comunicazione col dormitorio delle ragazze e, poiché è priva di chiave, sono costretta a sbarrarla con un catenaccio.”
    “Ma dài, zi' Sina, stai tranquilla ché non oserò…”
    “Temo siano le ragazze invece a combinare qualche guaio, m'interruppe la zia: abbiamo esperienza, nipote mio.”
    Prima di appisolarmi, non mi nascosi di essermi imbattuto amaramente in un luogo che richiamava la mia esperienza in seminario di qualche anno prima e, per questo, mi sentivo in cuor mio solidale con le collegiali: sapevo la disciplina del collegio, sapevo la privazione degli affetti. Ma le ragazze chiuse in collegio non avevano scelto di entrarci: sole al mondo, prive di contatti esterni e di ogni affetto familiare, vivevano come una colpa la vita irreggimentata, costrette alla disciplina e così pure allo studio. Erano gli anni ’60 del secolo scorso e la vita scorreva ancora come nei secoli prima. Ma la “rivoluzione” del Sessantotto era alle porte e ben presto sarebbero saltati non solo i vecchi metodi educativi nella società civile, ma anche in quella religiosa: si veda l’esperienza di don Lorenzo Milani priore di Barbiana che sovvertì il rapporto tra docente e alunno.
    S’era fatta mezzanotte intanto, dormivo, quando sentii bussare alla porta che comunicava con quella delle ragazze. Tesi le orecchie, bussavano in gruppo, quindi un chiacchiericcio, poi parole più chiare, invocazioni di avvicinarmi alla porta. Frastornato, ascoltavo i loro lamenti d’amore, i desideri inconfessabili, i loro sogni segreti frantumati da una sorte ingrata. Non mi accostai alle voci accorate che provenivano da un harem in subbuglio, prigioniero io stesso. Mi sarebbe occorsa una spada forse per abbattere una porta che dall’inferno conducesse in qualche paradiso sciogliendo le fanciulle dal malvagio incantesimo.
    Ero turbato e triste, scosso da quelle voci accorate. Il suono del catenaccio alle otto del mattino fu il segno della mia liberazione. Ma alla zi’ Sina non feci cenno di ciò che era accaduto nel corso della notte allorché un centinaio di ragazze avevano sognato di divorarmi brano a brano.



    Alfredo Romano
    Civita Castellana, novembre 2013
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  13.  



    di Alfredo Romano

    Quella volta che a Parigi (era il 1980) entrai nell’atelier di Roland Sarver in rue Charle V, per il solo fatto che parlassi la lingua italiana, il pittore mi prese a cuore. Era un tipo allampanato, i capelli lunghi sul grigio perennemente in disordine, occhi cerulei, la voce calma e rassicurante che ti metteva a proprio agio, la bocca aperta sempre a un sorriso, circondato a tutte le ore da amici benché occupato a pennellare su qualche tela. Io conversavo con lui in francese, ma poi ogni tanto si fermava e mi implorava di parlare in italiano anche se non afferrava il significato. Per Roland la lingua italiana era la più musicale e la più dolce del mondo. Quando poi scoprì che suonavo la chitarra, dovetti tirar fuori un bel po’ del mio repertorio e, sinceramente, oltre le canzoni di protesta molto in voga a quei tempi, quelle di Domenico Modugno risultarono le più gradite a Roland proprio per la riconosciuta melodia italiana. Capitò un giorno che un giornalista entrò nell’atelier mentre cantavo La donna riccia di Modugno, e  ne fu talmente rapito che chiamò la moglie al telefono e mi costrinse, si fa per dire, a cantargli la canzone via cavo.
    Così, tra una radioterapia e una chemio, benché deboluccio e sempre con un po’ di febbre addosso, quando varcavo la soglia dell’atelier di Roland io andavo in sollucchero e mi pareva di stare in ottima salute, anche se tutti erano sicuri del contrario. Tanto è vero che Giuseppe, il mio amico d’infanzia che gestiva un ristorante in Rue de Beautreillis (la via dove morì Jim Morrison per capirci) era seriamente preoccupato per me. Ma poi finii a cantare anche nel locale del mio amico, dove, oltre a Modugno, agli avventori piaceva tanto Bella Ciao, il nostro inno partigiano che in Francia era stato reso famoso daYves Montand.
    Talvolta Roland mi chiedeva di fermarmi a pranzo per far compagnia a lui e alla sua giovane compagna tedesca Brighitte, un bel tipo biondo e longilineo adorata da tutti i frequentatori dell’atelier. E fu così che tirai fuori anche la mia arte culinaria, salentina in primis. Non c’era il gas in casa e dovetti arrangiarmi con una piastra elettrica anche per un piatto di spaghetti ed altre pietanze in bella allegria per tutti gli avventori della casa: artisti, scrittori, giornalisti e… uomini di mondo, avrebbe detto Totò.
    Era il mese di luglio e Mina, la mia compagna, era rimasta a Civita Castellana per via del suo incarico di commissario agli esami di maturità. Finiti gli esami, mi raggiunse a Parigi e le feci conoscere Roland, il suo atelier e Brighitte.

    Un giorno Roland si prese la briga  di farmi un ritratto a carboncino mentre suonavo la chitarra. Lo fece anche a Mina e ne uscì un profilo a guisa di dama rinascimentale.
    Ma ecco che un giorno mi s’avvicinò Roland con tra le mani una tela bianca 80x50 cm:
    Alfredò, ecco una tela per te: dipingi quello che vuoi.”
    Ho creduto a uno scherzo e: “Grazie, Roland,” ho ribattuto “ma io non ho mai preso un pennello in vita mia!”
    “E allora? Provaci, no?”
    “Roland: dire poesie, cantare, cucinare, ma dipingere, dài…!”
    Ma Roland non demorse. E fu così che tra lo scherzo e il faceto decisi di provare: in fondo si trattava solo di giocare nei tempi morti del mio, si fa per dire, soggiorno parigino.
    “Che dipingi allora? Ce l’hai un soggetto?”
    “Sì, ce l’ho: dipingo Mina!”
    “Certo che è un azzardo come primo tentativo fare un ritratto.”
    “Ci provo, che ne dici?”
    “Bien bien!”

    La cosa più incredibile fu che Mina si mise in posa per farmi da modella e sembrava proprio seria nella sua parte. Non mi venne in mente che, visto che al Gemelli di Roma mi avevano diagnosticato sei mesi di vita, le persone che mi circondavano in genere erano propense ad assecondare ogni mio desiderio. E inconsciamente, chissà, forse io volevo lasciare un ricordo, l’ultimo, per la mia compagna.
    Dopo quattro giorni venne fuori il ritratto di Mina. A Mina piacque, non se l’aspettava, diceva che era bello. Roland sentenziò che assomigliava a un ritratto egizio per i colori e i segni un po’ essenziali.
    Ma commisi un delitto. Poiché il mio soggiorno a Parigi si allungava, avevo preso gusto a dipingere, ma non osavo chiedere un’altra tela bianca a Roland. E cosa feci? Rimbiancai la mia tela per eseguire un secondo ritratto di Mina. Che, quando se ne accorse, si mise a piangere quasi, proprio sconsolata. Ma Mina (Ditegli sempre di sì, come da commedia di Eduardo) si rimise pazientemente nel suo ruolo di modella. Stavolta cambiai strategia: intendevo non solo ritrarre Mina, ma ritrarre anche l’atelier di Roland con tutti i quadri astratti appesi alle pareti e suppellettili varie. Azzardai anche con i colori che stavolta li volli più vivaci. Il lavoro si protrasse per molti giorni stavolta, tanto che arrivò il momento di tornare in Italia e non avevo concluso il quadro. Ecco, dovevo lavorare ancora sul mento di Mina, sproporzionato assai, ma la rassicurai che, tornati a casa, mi sarei rimesso al lavoro per rimodellare il ritratto. Prima di partire, Roland mi donò il pennello col quale avevo osato ritrarre Mina, pennello che si trova ancora dietro al quadro incastrato nell’angolo retto di sinistra in basso.
    La sera che partimmo da Parigi per Civita Castellana con la nostra vecchia Renault5, incappammo in un’avventura. Ma nel corso dei tanti viaggi per Parigi quante volte avevamo rischiato la vita. Ricordo una tormenta di neve di notte sul Moncenisio perduti come usignoli nella bufera, quando non ci apparivano neanche i margini della strada oltre la quale c’era il burrone. Ma la notte che tornammo da Parigi con nell’auto il ritratto di Mina, eccolo pronto un indesiderato guasto al motore. L’auto procedeva lentamente con un rumoraccio sinistro e così uscimmo dall’autostrada e approdammo nella radura sperduta di un bosco sperando in qualche ora di sonno in attesa d’una officina che avremmo cercato di buon mattino. Il quadro lo avevamo posto in bella vista sul sedile posteriore e, scherzando io e Mina, ogni tanto ridevamo del quadro: “Se arriva la polizia” se ne usciva Mina ogni tanto “e scorge il quadro, ci arrestano per trafugamento di opere d’arte!” E giù a ridere.
    Il meccanico fu svelto e generoso e ripartimmo con santa pazienza. Ma al confine, cui si arrivava dopo una lunga discesa, proprio in prossimità della dogana dove c’erano delle auto in fila per la visione dei documenti, d’improvviso non mi funzionarono più i freni: attimi di terrore e, per non tamponare le auto in fila, questione di secondi, sterzai repentinamente a destra per infilarmi con le ruote di destra in una canaletta dove l’auto impattò finendo la sua corsa. Le due gomme a terra erano squarciate, era domenica e nessun soccorso era possibile. Se ne accorse un doganiere italiano e fu pronto a svelarci che, proprio qualche giorno prima, un auto con quattro ragazzi a bordo era finita in un burrone per il troppo abuso di freni. Morti tutti e quattro. Ci corse un brivido: sarebbe bastato che i freni avessero smesso di funzionare una ventina di metri prima, che avremmo subito la stessa sorte dei ragazzi. Purtroppo la nostra vecchia Renault, come altre auto allora, non disponeva di freni a disco. Ma non sapevamo della questione dei freni. Di sicuro da quel giorno, freni a disco o no, preferisco sempre far uso delle marce invece di azionare i freni. Finimmo in una stanza d’albergo e il giorno dopo, con l’intervento del carro attrezzi e del gommista, proseguimmo il nostro viaggio di ritorno. “Che strano,” rifletté Mina qualche ora più in là “è da più di un anno che facciamo avanti e indietro ogni mese Parigi-Civita Castellana e per un paio di freni la nostra vita stava per scivolare, per uno scherzo del destino, su di una buccia di banana. Citando Dario Fo in Prete Liprando avrei potuto dire anch’io: “Sono andato a Como per niente…!”
    Il quadro con il ritratto di Mina, qualcosa che ancora oggi fa parte della nostra intimità da non svelare, non lo esposi nel soggiorno, ma in camera da letto, sulla parete di fronte. Ma è da allora che Mina, mirandosi in quel quadro di buon mattino, ogni tanto mi rivanga il misfatto:
    “Alfredo, mi avevi assicurato che, tornati in Italia, avresti ripreso il ritocco del mio ritratto: non ti pare che nel quadro io stia lì a snocciolare un’oliva in bocca?”
    “Ma, Mina, lo sai che quello è il mio quadro incompiuto, no?” alzandomi di buon mattino per prepararle un caffè fumante, colazione con caffè d’orzo e miele, yogurt e biscotti col 30% di grassi in meno.
    Alfredo Romano, l'incompiuto ritratto di Mina a Parigi nel 1980. 80 x 50 cm.

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  14.  



    Cosa ne sappiamo noi? Chi dunque conosce il fondo delle cose?
    Il tramonto sfavillava fra le nuvole rosa;
    Era la fine d’un giorno di tempesta, e l’occidente
    Tramutava l’acquazzone in fiamma nel suo braciere ardente;
    Sul ciglio d’un sentiero, vicino a una pozzanghera,
    Un rospo guardava il cielo, abbagliato, affascinato;
    Serio, egli meditava; l’orrore contemplava lo splendore.
    (Oh! Perché la sofferenza e perché la bruttezza?
    Ahimè! Il basso Impero è pieno di Augustucoli,
    I Cesari di misfatti, i rospi di pustole,
    come il prato di fiori e il cielo di sole!).
    Le foglie bagnate s’imporporavano sugli alberi;
    L’acqua luccicava, in mezzo all’erba, sul sentiero;
    La sera si dispiegava come un vessillo;
    Gli uccelli abbassavano il canto indebolito durante il giorno;
    Tutto s’acquietava d’intorno; e, in pieno oblio di sé,
    Il rospo, senza timore, senza vergogna, senza collera,
    Dolce, ammirava la grande aureola del sole;
    Forse il maledetto si sentiva benedetto.
    Non v’è un solo animale che non abbia un riflesso d’infinito;
    Non v’è pupilla abietta e vile che non tocchi
    La vetta in un lampo, sia essa tenera o selvaggia;
    Non v’è mostro, disprezzabile, torbido, impuro,
    Che non abbia l’immensità degli astri negli occhi.

    Un uomo che passava notò l’orrida bestia,
    E, rabbrividendo, gli mise un piede sulla testa;
    Era un sacerdote che stava leggendo un libro;
    Poi una donna, con un fiore sul corsetto,
    Gli ficcò nell’occhio la punta dell’ombrello;
    Il sacerdote era vecchio, la donna era bella.
    Spuntarono quattro scolari, sereni come il cielo.
    -Ero bambino! Ero piccolo! Ero crudele!-
    Chiunque in questa terra, ove la purezza dell’anima è spesso
    Una chimera, potrebbe iniziare così la recita della sua vita.
    Si hanno il gioco, l’ebbrezza e l’alba negli occhi,
    Si ha una madre, si è degli scolari gioiosi,
    Dei piccoli uomini felici, che respirano l’atmosfera
    A pieni polmoni, amati, liberi, contenti; che fare
    Se non torturare qualche essere sventurato?
    Il rospo saltellava verso il fossato del sentiero.
    Era l’ora in cui nei campi si azzurrano gli orizzonti;
    Selvatico, egli cercava la notte; i ragazzi lo scorsero
    E gridarono: “Ammazziamo quest’animale schifoso!
    E siccome è così brutto, facciamogli anche del male!”
    E ognuno di loro, ridendo –il ragazzo ride quando uccide-
    Si mise ad infilzarlo con un ramo puntuto,
    Allargando la cavità dell’occhio maciullato, infierendo
    Sulle ferite, rapiti, compiaciuti di ciò che accadeva;
    I passanti ridevano; e l’ombra sepolcrale
    Copriva questo nero martirio privo di rantoli,
    E il sangue, spaventoso, colava da tutte le parti
    Sulla povera creatura, la cui sola colpa era d’esser brutta;
    Egli fuggiva; aveva una zampa fracassata;

    Un ragazzo lo colpiva con un badile scheggiato;
    E ogni colpo faceva schiumare quel proscritto
    Il quale, anche quando il sole sorrideva su di lui,
    anche sotto il grande cielo, strisciava nel fondo d’un fosso;
    E i ragazzi dicevano: “E’ malvagio! Sbava!”
    La sua fronte sanguinava; il suo occhio penzolava; fra il rovo
    E la ginestra, raccapricciante a vedersi, egli avanzava;
    Si sarebbe detto che uscisse da qualche terribile gabbia;
    Oh! Quale oscuro atto, peggiorare la miseria!
    Aggiungere l’orrore alla difformità!
    Distrutto, sballottato fra i sassi,
    Continuava a respirare; senza riparo,
    arrancava; si sarebbe detto che la morte, schizzinosa,
    lo trovasse così orrendo da rifuggirlo;
    I ragazzi volevano prenderlo in un laccio,
    Ma egli scappò loro, scivolando lungo una siepe;
    Il passaggio era sgombro, vi trascinava le sue piaghe
    E ci si inoltrava, insanguinato, sfiancato, il cranio squarciato,
    Avvertendo brividi di freddo in quella verde cloaca,
    Lavando la crudeltà dell’uomo in quella melma;
    E i fanciulli, con la primavera sulle gote ridenti,
    Biondi, graziosi, non s’erano mai divertiti tanto;
    Parlavano tutti assieme e i grandi ai più piccoli
    Gridavano: “Venite a vedere! Adolphe, Pierre, che ne dite?
    Finiamolo con una grossa pietra!”
    Tutti assieme, su quell’essere dall’esecrabile destino,
    Essi appuntarono gli sguardi, mentre il disperato
    Vedeva incombere su di lui quei visi spaventosi.
    -Ahimè! Magari avessimo delle mete, senz’avere dei bersagli;

    Quando miriamo un punto dell’orizzonte umano,
    avessimo la vita, e non la morte, nelle nostre mani.-
    Tutti quegli occhi seguivano il rospo nel fango;
    esprimevano al tempo stesso furore ed estasi;
    Uno dei fanciulli ritornò, portando con sé una lastra di pietra,
    Più pesante ancora per averla sollevata malagevolmente,
    E disse: “Adesso vedremo come se la caverà.”
    Ora, in quel medesimo istante, proprio in quel punto della terra,
    Il destino faceva sopraggiungere un carro molto pesante
    Trainato da un vecchio asino storpio, magro e sordo;
    Quest’asino sfinito, zoppicante e penoso,
    Dopo un giorno di marcia si approssimava alla stalla;
    Tirava il carretto e portava un paniere;
    Ogni passo che faceva sembrava fosse il penultimo;
    Quest’animale avanzava estenuato, battuto,
    Tempestato da un nugolo di colpi;
    Aveva negli occhi offuscati dai fumi della fatica
    Quell’eginetica espressione che pare ottusità ma è stupore;
    La carreggiata era impervia, piena di fango,
    E in quei solchi così aspri ogni giro di ruota
    Dava come un lugubre e rauco strappo;
    L’asino arrancava gemendo, il barrocciaio bestemmiava;
    La strada declive pressava il carro dietro il povero animale;
    L’asino meditava, sottomesso, colpito dalla frusta e dal bastone,
    E il suo pensiero toccava una profondità sconosciuta all’uomo.
    I ragazzi, avvertendo il rumore di quelle ruote e di quel passo,
    Si voltarono chiassosamente e videro il carretto:
    “Hé! Non far cadere la lastra di pietra sul rospo. Fermati!”

    Gridarono. “Guarda, sta giungendo quel carro
    E gli passerà sopra, sarà molto più divertente.”
    Tutti si misero ad osservare. D’improvviso, avanzando pel sentiero
    Ove la martoriata e orrida creatura attendeva il supplizio finale,
    L’asino vide il rospo e, triste - ahimè! Chinandosi
    Verso chi era ancora più triste-, oppresso, sfinito, cupo,
    Abbassò il muso fin quasi a terra e parve fiutarlo;
    Questo forzato, questo dannato, questo pio martire, lo graziò;
    Rinfocolò le proprie forze ridotte al lumicino e, tendendo
    La catena e la cavezza sui suoi muscoli insanguinati,
    Opponendosi al barrocciaio che gli gridava: “Avanti!”,
    Dominando la spaventosa vicinanza del suo fardello,
    Affrontando la sfida pur con la sua spossatezza,
    Tirando il carro e sollevando il basto,
    Stravolto, portò a deviare l’inesorabile traiettoria della ruota,
    Lasciando vivere dietro di lui quel miserabile;
    Poi, ricevuto un colpo di frusta, riprese il suo cammino.
    Allora, liberando le mani dalla lastra di pietra che scivolò via,
    Uno dei fanciulli – proprio quello che racconta questa storia -
    Sotto l’infinita volta del cielo azzurro e tenebroso a un tempo,
    Ebbe modo di udire una voce ferma che gli disse: “Sii buono!”
    La bontà nell’incoscienza è il diamante in mezzo al carbone!
    Il divino enigma della luce maestosa che squarcia le tenebre!
    L’armonia celeste nulla avrebbe più delle cose morte,
    Se le cose morte, triste accozzaglia di castighi e cecità,
    Riflettessero, e, private d’ogni gioia, provassero pietà.

    Oh, quale ineffabile spettacolo! L’ombra misericordiosa,
    L’anima costretta al buio soccorre l’anima nelle tenebre,
    L’idiota, mosso a compassione, si curva sull’essere ripugnante,
    Il buon dannato dà speranza a chi è stato accusato di malvagità!
    L’animale che si eleva, mentre l’uomo indietreggia!
    Nell’irreale serenità del pallido crepuscolo,
    L’orrenda bestia meditò per un istante e scoprì d’esser parte
    Di quella misteriosa e profonda dolcezza;
    Bastò che un lampo di grazia splendesse nel suo essere
    Per renderla del tutto simile a una stella eterna.
    L’asino che era rientrato la sera, sovraccarico, distrutto,
    Morente, e sentiva sanguinare i suoi poveri zoccoli consunti,
    Aveva fatto qualche passo in più, aveva scartato e deviato
    Per non schiacciare un rospo nel fango.
    Quest’asino meschino, sudicio, straziato dai colpi di bastone,
    Ha mostrato d’esser più nobile di Socrate e più grande di Platone.
    Che vai cercando, filosofo? Oh, pensatore, stai elucubrando?
    Volete forse trovare la verità fra queste nebbie maledette?
    E allora credete, piangete, immergetevi nell’insondabile amore!
    Chi è buono vede chiaro quando giunge all’oscuro bivio;
    Chi è buono dimora in un angolo di cielo. Oh, saggio,
    La bontà che rischiara il volto del mondo,
    La bontà, questo sguardo ingenuo del mattino,
    La bontà, limpido raggio di sole che scalda l’ignoto,
    L’istinto che, nella tenebra e nella sofferenza, ama,
    E’ quel legame ineffabile e supremo
    Che equipara nell’ombra – ahimè, spesso così lugubre! -
    Il grande innocente, l’Asino, a Dio il grande sapiente.

    Traduzione di Barbara X

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